Lei è sempre sposata con un altro. Lui parla sempre un’altra lingua, preferibilmente il russo o cose così, lontane. Purché siano lontane. È solo lì che abita il desiderio. La reggia di Venere (SartoriaUtopia, 2020, pp. 176, € 25) è una sfida che tredici donne lanciano alla poesia e con la poesia. Roberta Durante, Federica Maria d’Amato, Silvia Salvagnini, Paola Soriga, Francesca Genti, Maria Moresco, Francesca Gironi, Giulia Anania, Alessandra Racca, Viola Barbara, Valentina Diana, Francesca Tini Brunozzi, Maria Antonietta: vogliono catturare il canto del desiderio, capirlo, forse. Renderlo realtà, magari. Se la lira di Orfeo sapeva sradicare le querce e far piangere le pietre, potrà lui, lei, l’amore cui la poesia si rivolge, restare insensibile? Non desiderare quello stesso desiderio?
È un po’ gioco di parole leggere per finta.
“(sondare la sintassi per cercare/ un suono che faccia innamorare)”
È uno stordimento dei punti cardinali.
“Portami a Berlino così da guardare a est/ a ovest, dove voglio”
È capire, non solo qualcosa di utile, di parziale. È riuscire “a capire tutto”. È giustizia, quindi. Verità, addirittura.
È ingenuità necessaria, confessione, quasi. Il tono è da imperativo morale, corale.
“[…] quello che sento qui: questo pianto felice/ per il futuro va spartito fra tutti”.
La mappa del tesoro è aggrovigliata, ma c’è, finalmente.
“[…] che tutto, dico tutto, ha il nome tuo:/ i treni che partono da te portano tutti a te, diretti/ regionali ritardatari […] Sei tu quella lancetta dei minuti/ un po’ contati, che gira intorno a me, più bassa e lenta.”
La meta è lì: si tratta solo di capire che è un inizio, non una fine.
“[…] e ricominciare dal vero bisogno: dal mondo del sogno.”
Dà la vertigine questo desiderio. E allora cantare cantare cantare, per non perdere l’equilibrio, per avere una traccia da seguire – lì, a mezz’aria. Cantare per resistere nel volo, per continuare a capire tutto in mezzo a chi si impegna solo a non capire niente. Appesi a quel sì detto in milioni di parole e in altrettanti e più eloquenti silenzi. Sì che a volte suona in undici sillabe precise e si spartisce in rime senza stemperarsi.
Il gioco perfetto della vita sarebbe un canto che risponde al canto. Solo immaginarlo commuove.
“Urla un fiotto di sangue che mi arriva alle tempie.”
Se sapessimo imparare dal desiderio. Se avessimo il giusto grado di attenzione. Difficilmente l’uomo è così uomo come nel moto del desiderare. La mano di lei che sente crescere la barba di lui sotto le proprie dita. In quel momento, quelle sono dita che scolpiscono. Forse, alla fine, è il desiderio la forma dell’uomo. La più viva, se non altro.