Quei padri russi e ucraini che non possono piangere

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screenshot da video - Fb

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Ci siamo riusciti un’altra volta. Abbiamo defraudato la figura paterna persino nel raccontare la guerra in corso, dopo averla discriminata in materia di separazione, divorzio, affidamento della prole, nonché dopo avere demolito il maschio facendone l’incarnazione del male, ovvero della violenza, e tracciandone una versione caricaturale e persino mostruosa divenuta, purtroppo, stereotipo di genere. Narriamo il dramma delle madri ucraine che, tenendo per mano o stringendo al petto i figli, scappano dai missili e dai colpi di mortaio che non risparmiano proprio nessuno, ma non ci soffermiamo mai sul dramma vissuto da chi non ha scampo, da chi resta perché deve restare, da chi, suo malgrado, è costretto a vedere la propria famiglia allontanarsi sapendo che altissima è la probabilità di non riabbracciare più i propri bambini perdendo la felicità di osservali crescere e farsi donne e uomini, chance che non sarà preclusa, invece, a chi si mette in salvo con gli infanti.

Quello attraversato dai babbi che dimorano in Ucraina, dove, stando ai dati dell’Unicef, dall’inizio di quella che Putin si ostina a chiamare “operazione militare speciale” ogni secondo un minore diventa profugo, è un vero e proprio inferno, lastricato di bombe, distruzione, proiettili, macerie fisiche ed emotive che non potranno mai più essere rimesse insieme, riparate. E nel considerare ciò non possiamo trascurare altresì la condizione dei soldati russi, padri e figli anche di uomini e non solamente di donne, mandati a morire e ad uccidere in terra straniera, ossia a combattere una guerra che ora dopo ora appare, persino a chi la fa sul campo e la credeva in principio “giusta” e “facile”, del tutto priva di senso e di scopo, tanto che elevatissimo è il numero dei disertori e sempre più diffuso il fenomeno del ferirsi reciprocamente tra colleghi per potere rientrare in patria.

E poi ci sono i padri dei ragazzi che impugnano le armi, che hanno raggiunto il fronte, che ogni giorno cadono, o rimangono mutilati. Perché di loro non parliamo mai? Perché non pensiamo anche all’attesa disperata di chi è papà? Perché ci commuoviamo soltanto per le madri russe o per quelle ucraine?

Il complesso di sentimenti, emozioni, paure, ansie, gioie connesse alla genitorialità non contempla distinzioni di alcun tipo, soprattutto quelle di sesso, addirittura neppure di specie, ove teniamo conto del fatto che l’istinto di protezione di un animale verso la sua creatura è identico a quello che avverte un essere umano. Eppure, nella nostra coscienza collettiva, sono solo loro a soffrire: le mamme. Sempre ritenute più fragili, o vittime, o soffocate dai doveri. Ciò è frutto di un approccio miope alla genitorialità stessa: siamo convinti che i figli appartengano al ventre in cui sono stati incubati e non anche al seme senza il quale quella vita non avrebbe mai potuto prendere forma.

Ed eccoli lì i padri russi e ucraini. Guardateli. Sono uomini, quindi non è permesso loro piangere e soffrire ché un maschio con le lacrime è ancora reputato debole e non semplicemente umano. Né è consentito loro sottrarsi ai propri obblighi morali oltre che materiali. Vorrebbero rincorrere quella carrozza che scivola via verso quel nulla che pure si spera migliore, una carrozza che custodisce tutto ciò che per loro abbia valore, ciò per cui sarebbero disposti a dare la vita in questo stesso momento. Ma puntano i piedi. Li inchiodano al terreno. Immobili, resistono.

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