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In Italia non c’è piccolo paese che non abbia un suo concittadino illustre del quale menar vanto. Veri e propri santi patroni laici, anziché con le solennità religiose vengono celebrati coi festival. Non c’è dubbio che molti dei personaggi storici di cui gli italiani vanno giustamente orgogliosi, fossimo stati nell’Antichità, avrebbero ricevuto l’apoteosi e sarebbero stati innalzati templi in loro onore, parificandoli agli Dei, come fecero a Epidauro per Asclepio. Oggi la nostra società, poco incline al sacro, si limita alle celebrazioni culturali e civili, che tuttavia rappresentano un fertile humus nel quale affondano le radici profonde della nostra identità nazionale.
Così, le lunghe stagioni miti della nostra penisola sono ideali alle kermesse con cui piazze, teatri e arene si riempiono di folla: i cittadini sono gelosi e orgogliosi delle loro glorie passate, che ben volentieri esibiscono ai turisti e ai media. Il personaggio illustre (ma anche l’evento eccezionale, si pensi ad Anagni, col celebre “schiaffo” dei francesi a Bonifacio VIII o a Barletta con la disfida celeberrima) rappresenta un legame col passato che ogni italiano sente proprio. I borghi e le città italiane, lungi dall’essere ridotte a non-luoghi come l’urbanistica contemporanea si sta sforzando di fare, hanno infinite storie da raccontare. E ciascun italiano, legatissimo alla propria città d’origine come s’addice al popolo più campanilista del mondo, non può non identificare se stesso con un pezzetto di eredità del passato municipale.
Chiunque in viaggio per l’Italia sia ospite di amici, parenti, organizzatori, colleghi non può sottrarsi a un’usanza che stranamente è fra le meno sottolineate del nostro carattere nazionale, ma che è non meno sostanziale, importante (e onnipresente) del caffè o dell’enogastronomia: il “giro turistico” per andare a vedere le glorie locali. Le lapidi ricordano la casa natale o il luogo dove ha risieduto l’illustre personaggio del passato e i nostri anfitrioni non vedono l’ora di mostrarcele, esattamente come i patrizi romani esibivano nell’atrium delle loro dimore i simulacri degli antenati più illustri. Spesso chi si offre di far da cicerone ripercorre col suo ospite i propri ricordi: la mini-gita scolastica, la passeggiata col nonno o col padre… la propria storia personale si fonde così con la grande storia collettiva.
In un’epoca in cui sradicamento, “mobilità” e cancel culture sono i vessilli alzati con protervia dalle forze del Nulla, l’attaccamento degli italiani agli uomini illustri del loro passato dimostra come il nostro popolo voglia ancora essere tridimensionale, solido, proiettato non solo nel piatto spazio presente, ma anche con una sua dimensione temporale: un passato di cui andar fieri e conseguentemente da consegnare ai propri figli (naturali o morali) come eredità e condiviso coi propri concittadini come collante identitario, di campanile, e coi forestieri come orgogliosa offerta di arricchimento.
Nulla di più logico, dunque, che le iniziative culturali improntate a una ritualità civica vengano costruite con fierezza attorno alle glorie locali. Una fierezza che consente di fare argine a derive come la cancel culture: oggi continuiamo a celebrare Ruggero Leoncavallo o il trio Giannini-Melato-Wertmüller, in un momento in cui ringhiose folle femministe vorrebbero la cancellazione di melodrammi e pellicole perché “offensivi” secondo la morale del politicamente corretto. O Cavour, la cui memoria era stata oscenamente dimenticata nel bicentenario della morte (non sia mai gli italiani si ricordassero che possono avere anche governanti con gli attributi…). E ancora, i Doria, protagonisti di imprese militari durante i Secoli di Ferro che oggi farebbero gridare qualche “fiocco di neve” da campus universitario al colonialismo, allo schiavismo e al militarismo. La gelosa caparbietà con cui gli italiani si stringono attorno ai loro antenati illustri è un segno di buona salute, nonostante tutto e tutti, e sta trasformando pian piano questi personaggi nel nuovo genius loci delle città.