La Roma santa e dannata di Dago, Giusti e Ciprì al cinema

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È un docu-film. Ci accomodiamo in sala e gli autori ci invitano ad entrare in un barcone sul Tevere di notte, a sederci su un comodo divano e davanti a un baby whisky o un grappino, inizia il viaggio. I due istrioni sono Dante e Virgilio che si scambiano le parti in commedia, Caronte e Cicerone che ampliano i loro racconti alla Roma godona notturna inconfessabile dagli anni Settanta ai Novanta e Duemila. Qualcuno ha detto che questo film è in realtà uno spin-off della Grande Bellezza e non stupisce trovare nei titoli di testa il nome di Paolo Sorrentino tra i produttori. Dago parla come un fiume in piena, il suo racconto è farcito di salotti, buoni, cattivi, di terrazze come appunto quelle di Jep Gambardella e quella di Ettore Scola prima. Luoghi dove ci si conosce fra pari, si intrecciano relazioni, tresche, inciuci, accordi, matrimoni, si tesse la tela del potere, quello delle amicizie radicate, quello che conta veramente. Roma è una città a sé. Roma non è mai caduta. Ti sopravvive sempre. È eterna. Ha conosciuto imperatori, congiure, barbari, Carlo Magno, papi, persino Valeria Marini – aggiunge perfido D’Agostino – dando una boccata al suo sigaro. Roma non condanna, assolve tutti. Ti stringe in un abbraccio da colonnato del Bernini e poi ti dimentica, ci passa sopra, si dice: “morto un Papa se ne fa un altro!”.

Quello di Dago e Giusti è un aggiornamento della grande parabola del Marziano a Roma di Ennio Flaiano, prima racconto e poi commedia teatrale scritta per Vittorio Gassman che sarà talmente un fiasco al Lirico di Milano al suo debutto che farà dire a Flaiano sottovoce la celebre battuta: “l’insuccesso mi ha dato alla testa!”. Ecco Roma dà alla testa ai marziani, prima acclamati come salvatori, celebri, paparazzati (altra espressione di Flaiano) e poi questi una volta celebri, riconosciuti, si romanizzano: mangiano i bucatini all’amatriciana nelle trattorie trasteverine, frequentano la Dolce Vita e si lasciano sedurre dal richiamo delle sirene e dei fotografi. Vanno in iperventilazione di popolarità. Ecco che a un certo punto della storia del marziano Kunt, vicino a un’edicola di via Boncompagni dietro alla scintillante via Veneto, solo, sconsolato, passeggia e l’extraterrestre verrà spernacchiato da due giovanotti in Lambretta: “Ah marzianooo!”. Roma trova in sé l’apice del sacro e del profano, come nella sfilata dei Vescovi in Roma di Federico Fellini prima o nella Mucca Assassina o al Degrado poi: locali e club privé di proprietà del Vaticano. A testimoniare l’eccentrica movida di quegli anni e le contraddizioni della doppia morale notturna tra gli altri Vladimir Luxuria e Vera Gemma. Esilarante il racconto allucinato di Massimo Ceccherini durante le sue notti al Jackie ‘O, un altro locale famoso alle cronache per le scompigliate serate in discoteca dell’allora onorevole socialista De Michelis. Roma santa e dannata è il racconto anche dell’Hotel Raphael il 30 aprile di trent’anni fa con il lancio di monetine contro Bettino Craxi, l’ingresso in Parlamento di Cicciolina, le feste di Berlusconi, il passaggio tra la Prima e la seconda Repubblica. Un prestigioso giornale fotografava la classe alta, si chiamava Capital. Dago è l’inventore di Cafonal proprio osservando questa fauna che popola la Capitale, si abbraccia si riconosce, si getta sul buffet. Come sopravvivere a questa città eterna senza fare come la canzone teatro di Remo Remotti e me ne vado da questa Roma? Basta fare surf. Stare superficialmente sull’onda senza avere l’illusione di essere eterni. Così parlò D’Agostino.

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