Ramelli e i consiglieri comunali che applaudirono alla sua morte

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“Centinaia di saluti romani”. È questo lo scenario previsto da Emanuele Fiano, esponente del Pd, in vista dell’anniversario della morte di Sergio Ramelli, avvenuta il 29 aprile 1975. “Ci saranno denunce – ha aggiunto riferendosi a quanto accaduto dopo le commemorazioni degli anni scorsi a Milano -, ci saranno processi e l’anno prossimo sarà di nuovo così”. “Spero che non venga autorizzato proprio nessun corteo – ha detto ancora l’esponente del Pd – e che vengano di nuovo denunciati coloro che li cinicamente usano la pietà umana per l’esibizione dell’apologia di fascismo. Perché per me è antifascismo sempre”.

Ma chi è Sergio Ramelli e perché il ricordo della sua morte viene accompagnato dai saluti romani?

Partiamo dal 13 marzo 1975, quando Ramelli, studente di liceo di appena 19 anni, stava ritornando a casa, in via Amadeo a Milano. Il ragazzo, una volta parcheggiato il suo motorino poco distante, in via Paladini, si incamminò verso casa: da lì l’inizio della fine. Infatti, all’altezza del civico 15 di via Paladini, Ramelli fu assalito alle spalle e preso a colpi di chiave inglese – la famigerata Hazet 36 ricomparsa qualche tempo fa in un vergognoso video di un partitucolo di estrema sinistra… – da un gruppo di extraparlamentari comunisti di Avanguardia operaia.

Il ragazzo fu colpito al capo con ferocia e per più volte al punto da perdere i sensi finendo esangue al suolo. Una dinamica macabra che emerse dalla testimonianza di uno dei suoi assalitori, Marco Costa, durante il processo: «Ramelli capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Ma temo di sfregiarlo, di spezzargli i denti. Gli tiro giù le mani e lo colpisco al capo con la chiave inglese. Lui non è stordito, si mette a correre. Si trova il motorino fra i piedi e inciampa. Io cado con lui. Lo colpisco un’altra volta. Non so dove: al corpo, alle gambe. Non so. Una signora urla: “Basta, lasciatelo stare! Così lo ammazzate!”. Scappo, e dovevo essere l’ultimo a scappare».

A sua volta Giuseppe Ferrari Bravo rese la seguente testimonianza: «Aspettammo dieci minuti, e mi parve un’esistenza. Guardavo una vetrina, ma non dicevo nulla. Ricordo il ragazzo che arriva e parcheggia il motorino. Marco mi dice: “Eccolo”, oppure mi dà solo una gomitata. Ricordo le grida. Ricordo, davanti a me, un uomo sbilanciato. Colpisco una volta, forse due. Ricordo una donna, a un balcone, che grida: “Basta!”. Dura tutto pochissimo… Avevo la chiave inglese in mano e la nascosi sotto il cappotto. Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito. Non mi resi affatto conto di ciò che era accaduto.»

Pochi minuti che diedero inizio a una lunga agonia, durata ben quarantasette giorni.

Infatti, pochi minuti dopo l’aggressione, un’ambulanza portò la giovane vittima all’Ospedale Maggiore, precisamente all’ex padiglione «Beretta» specializzato in neurochirurgia. Cinque ore, fu questa la durata dell’intervento chirurgico a cui Ramelli fu sottoposto nel tentativo di ridurre i danni causati dai colpi inferti alla calotta cranica. Ma questo era solo l’inizio, in quanto il periodo post-operatorio fu fatto da periodi di coma alternati ad altri di lucidità.

Una situazione disastrata al punto da portare gli stessi sanitari ad essere dubbiosi sul recupero delle piene funzionalità fisiche della giovane vittima. Ma al peggio non c’è mai fine.

Infatti, nel corso dell’assemblea consiliare al Comune che fece seguito all’aggressione, l’allora sindaco Aldo Aniasi dovette affrontare una seduta dove la disumanità andò oltre ogni limite. Non per nulla, mentre da un lato la destra condannava l’accaduto, tra il pubblico presente, invece, ci fu chi applaudì alla notizia del fatto e rivolse fischi al rappresentante del MSI Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse che aveva in quel momento la parola.

Una vergogna alla quale se ne aggiunse un’altra: gli applausi anche da parte di diversi consiglieri comunali di sinistra. Applausi che si consumavano mentre una giovane vita si stava consumando in un letto d’ ospedale. La famiglia Ramelli continuò a non avere pace anche durante la lunga agonia di Sergio.

Infatti, il 28 aprile, un gruppetto staccatosi da un corteo della sinistra si recò presso la casa della famiglia della giovane vittima, lasciando scritte sui muri e affiggendo un manifesto in cui Luigi Ramelli, fratello di Sergio, veniva minacciato di morte qualora non fosse sparito entro quarantotto ore. Tutto questo il giorno prima della morte del giovane missino: il 29 aprile 1975, 30° anniversario dello scempio di Piazzale Loreto.

La tensione non si placò neppure ai funerali, che ebbero luogo nella chiesa dei Santi Nereo e Achilleo. Infatti, le autorità locali avevano vietato il corteo funebre e gli estremisti di sinistra avevano minacciato di usare chiavi inglesi contro eventuali partecipanti. Nel corso della celebrazione quattro militanti di destra furono denunciati per apologia del fascismo a causa di saluti romani rivolti al feretro. Per di più, a cerimonia conclusa, circa trenta giovani, inneggiando alla figura del Duce, cercarono di raggiungere una vicina sede del PCI, ma la polizia riuscì a fermarli. A seguito degli scontri con le forze dell’ordine, altri tre militanti furono incriminati per manifestazione sediziosa e apologia del fascismo.

Il 16 marzo 1987 iniziò il processo per gli accusati del massacro di Ramelli: Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari. Le accuse comprendevano omicidio volontario, tentato omicidio, sequestro di persona, associazione sovversiva, danneggiamento. A sostenere la famiglia di Ramelli, un giovane avvocato missino: Ignazio La Russa. Il 16 maggio 1987 la II Corte d’assise di Milano assolse Di Domenico per insufficienza di prove e dichiarò Cavallari estraneo ai fatti, ma ritenne gli altri imputati colpevoli di omicidio preterintenzionale.

Il 2 marzo 1989 la II sezione della Corte d’assise d’appello presieduta da Renato Cavazzoni accolse le richieste del pubblico ministero ma, benché l’accusa fosse mutata in omicidio volontario, riconobbe l’attenuante del concorso anomalo, riducendo così sensibilmente le pene: Costa passò da 15 anni a 11 e 4 mesi; Ferrari Bravo da 15 a 10 e 10 mesi; 7 anni e 9 mesi a Colosio invece che 15; 7 anni invece di 13 a Belpiede; 6 anni e 3 mesi a Castelli, Colombelli, Montinari e Scazza in luogo degli 11-12 iniziali.

Il 23 gennaio 1990 la I sezione della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale rigettò la richiesta di riconoscimento della premeditazione e i ricorsi della difesa confermando le sentenze di secondo grado. Nello scenario di una giustizia che lascia perplessi, da ricordare altresì che alcuni degli allora studenti di medicina condannati, in seguito, fecero carriera nel settore medico ricoprendo prestigiosi incarichi ospedalieri.

Un epilogo che sa di ingiustizia ma di cui però nessuno parla. E chi cerca di dar voce a vittime volutamente silenziate, viene silenziato a sua volta. Un accanimento che, paradossalmente, ha dato vita a una casa editrice con l’intento di dar voce proprio a vittime e personaggi puntualmente gettati nel limbo per la loro appartenenza politica.

Si sta parlando di Ferrogallico, la casa editrice dei fumetti “ostinati e contrari” nata proprio da un “No”, come raccontato dal suo editore Marco Carucci nel 2019, in occasione della presentazione della sua creatura editoriale all’ associazione culturale Il Ramo d’ Oro: “Erano almeno 3/4 anni che avevo deciso, da vecchio militante milanese, di raccontare la storia di Sergio Ramelli in una maniera un po’ diversa da come era stata raccontata con libri e racconti. Io stesso volevo trovare il modo per continuare a tramandare la storia di Sergio attraverso uno strumento nuovo soprattutto per i giovani”.

Da lì l’idea di ricorrere allo strumento del fumetto, che portò l’editore a scrivere la sceneggiatura di Sergio Ramelli. Fatta la sceneggiatura mancava però un disegnatore. Un’ assenza che spinse gli autori a bussare a varie case editrici, i cui “Sì”, una volta letta la sceneggiatura, diventavano “No”. Ed è proprio da quei “No” che prese vita Ferrogallico, proprio come raccontato dal suo stesso editore: “è da lì che nasce Ferrogallico: da un No”. Un “No” che, nel maggio del 2017, portò alla pubblicazione del primo fumetto della casa editrice, dedicato proprio a quel giovane missino barbaramente assassinato sol perché “osò” dire “No”. “No” alle ingiustizie e ai crimini subiti dagli appartenenti al MSI.

Un “No” che, infatti, Ramelli espresse forte e chiaro in un tema scolastico, in cui condannava le Brigate Rosse, aggiungendovi una nota di biasimo verso il mondo politico per il mancato cordoglio istituzionale di fronte alla morte di due militanti del MSI, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, uccisi durante l’assalto alla sede del MSI di Padova avvenuto l’anno precedente (17 giugno 1974). Un tema che divenne il “capo d’accusa” dando vita a una specie di “processo politico” scolastico, istituito contro Ramelli da studenti che lo accusavano di essere fascista.

Un processo che si concluse con la condanna a morte del ragazzo, ma che, alla fine, lo rese eterno.

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