Solidarietà a Diego Fusaro e Michel Maffesoli

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Come Sisifo che non ha mai tregua nel riportare il masso in cima al monte che è costretto a veder ricadere giù, all’infinito, e ricominciare: ecco a cosa potrebbe rimandare il nuovo affaire Maffesoli-Fusaro. La censura e conseguente eliminazione dal parterre di relatori da un Convegno dell’Université de la Cote d’Azur del sociologo Michel Maffesoli, Professore Emerito alla Sorbonne di Parigi e membro dell’Institut Universitaire de France, e del filosofo italiano Diego Fusaro, è un avvenimento che conferma come il Moloch Progressista non abbia ancora voluto rassegnarsi all’esistenza di un pensiero non allineato e non conforme che è oltretutto maggioritario in questo momento storico-culturale. I due filosofi pagano rispettivamente il primo l’essere un intellettuale libero che ha spesso dialogato con il mondo della nuova destra oltre a essere protagonista di tesi sperimentali e provocatorie poco consone a un ambiente frigido come quello francese, l’altro l’essere considerato un intellettuale ribelle al pensiero unico globalista.

Maffesoli ha di recente pubblicato, fra l’altro, un bellissimo saggio Les Nouveaux Bien-pensants, in cui critica i discorsi razionali e astratti dei benpensanti, incapaci di comprendere le urgenze che attraversano la vita quotidiana di individui che bramano un contatto passionale e dionisiaco con l’altro attraverso forme nuove di comunitarismo. La copertina del saggio del filosofo francese era altrettanto emblematica: una foto di un gregge di pecore. I benpensanti: oracoli di un popolo che prima annuiva inerme e che oggi finalmente non li segue più.

CulturaIdentità non può che condannare l’ennesimo atto vergognoso della polizia del pensiero. Di recente era toccato ad Alain De Benoist, cui fu impedito di tenere un convegno alla Fondazione Feltrinelli, ma non possiamo non citare, ancora in ambito universitario, ma italiano in questo caso, le abilitazioni negate ad alcuni docenti perché dediti a pubblicazioni con case editrici e su tematiche riconducibili ad autori di destra.

CulturaIdentità ha l’obiettivo di promuovere il pensiero ribelle, obliquo, non conforme. Vuol provare a dare una risposta all’incapacità di farsi egemonia di tale pensiero. Creare una rete di intelligenze che disperse, diasporiche e atopiche, non hanno casa, e unirle in nome di una alleanza culturale non contro, ma per un progetto innovativo. Un punto chiave è la ricerca di un confronto, di un dialogo con altre sensibilità pure distanti da noi, in un momento chiave del rimescolamento di idee e ideologie alla luce di nuove sfide globali che hanno provocato fratture inedite intorno alle quali costruire un pensiero e una conseguente azione politica. CulturaIdentità alimenta una comunità che, non accontentandosi più di un ruolo di testimonianza, vuole divenire protagonista e attuare la propria visione, progettuale e metapolitica. È un appello a intellettuali, randagi, irregolari, accademici, artisti e studiosi, a creare una rete virtuale e perciò reale, nell’era della vita bifida in bilico fra materiale e immateriale. Finiscano perciò la lotta intestina, gli egoismi e gli individualismi, per sfidare come comunità l’esilio imposto e spesso pure autoimposto.

Lo sguardo compiaciuto e di sufficienza malcelata del “mondo dei migliori”, di coloro che credono di poter sancire il diritto di cittadinanza culturale, è ancora vivo e combattivo.

La nostra è una battaglia non nazionale ma sovranazionale, come il caso di Nizza dimostra, una lotta che attraversa come fascio di luce un prisma, sfumando nei vari ambiti della cultura: Comunicazione, Accademia, Arte.

Il momento storico vede i cosiddetti uomini del sapere istituzionalizzato perdere contatto con il reale, portandoli a imbastire una nuova contesa col fine di delegittimare il pensiero non allineato.

Il mondo dei migliori è fuori controllo, incattivito per l’incapacità di comprendere il voltafaccia di un popolo che credevano proprio per discendenza divina. Una nemesi li ha resi i nemici di quel popolo che strumentalizzavano nelle teorie politiche e nei programmi elettorali, nelle riflessioni auliche e negli animati saggi, credendo di poterne usufruire a piacimento solo per un ritorno numerico-elettorale.

La post-democrazia, che molti di loro auspicavano si manifestasse come un nuovo mondo omologato da una democrazia digitale globale, si è invece rivelata, per una chiara eterogenesi dei fini, come terreno fecondo per il ritorno della energia tribale e identitaria dei popoli, che nella rete digitale hanno covato una rinascenza dell’arcaico più che una consegna molle all’indistinto mondo del consumo e della finanza invisibile. La gente, però, non si è piegata all’algoritmo e ricerca la radice che possa far sentire gli individui parte di una comunità anziché pedine di un videogame globale.

Come risposta alla rivolta dei popoli, questa oligarchia asettica – il Gran Consiglio della Verità costituito dai progressisti dell’Occidente – ha messo in piedi un tribunale che si presenta come Psychopolitica. Se infatti il filosofo coreano Byul Chul Han, parlando di Psicopolitica, metteva l’accento su come ognuno di noi fosse schiavo inconsapevole e felice di una società consumistica che lo tratta come un (s)oggetto del consumo più che un individuo con dei diritti, alla ribellione del popolo e di alcuni intellettuali che stanno mettendo in discussione lo status quo, i suddetti oligarchi rispondono con una Psycho-politica, una censura preventiva del pensiero non omologato fino al punto di considerarlo un disturbo patologico, se non criminogeno.

Il Moloch progressista necessita di continui nemici da additare come indegni di partecipare al dibattito culturale, crea nuovi mostri ad arte per poter elevarsi, anche nell’epoca in cui è minoritario, a unico pensiero degno di cittadinanza.

Serve una reazione che non si sviluppi come indignazione sterile o come fuochi che divampano solitari per lo sdegno, ma è urgente una rete fra intellettuali, cittadini, politici che, coscienti di essere maggioranza, facciano comprendere a coloro che vorrebbero respingerci nel ghetto che in quel ghetto ci sono loro ormai da tempo, per volontà di quel popolo che hanno ripetutamente tradito.

 

di Nuccio Bovalino e Alessandro Sansoni