Daniela Pes. L’amalgama visionario e ipnotico di “Spira”

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L’immagine di copertina sembra rimandare ad una processione: il viso è quello di una giovane donna in primo piano avvolto da uno scialle scuro, si chiama Daniela Pes, sguardo fiero e lievemente torvo, con alle spalle un cielo notturno che indica quanto ancora sia lontana l’alba. Negli occhi della ragazza si percepisce, non subito ma dopo qualche istante, l’orgoglio di una combattente di cui, d’ora in avanti, sarà difficile dimenticare il nome.

La copertina di “Spira”, di Daniela Pes

Per descrivere il suo album d’esordio Spira, vincitore della targa Tenco 2023 nella categoria Opera prima, occorre partire dalle parole del produttore del disco Jacopo Incani (a sua volta compositore in proprio, noto come “Iosonouncane”), che sul lavoro dell’autrice gallurese si è espresso in questi termini: «La scrittura di Daniela è tragica e vitale, tipica di tutti gli autori sardi, sia che si occupino di musica o di narrativa, da Maria Lai a Marcello Fois, c’è lo stesso sentimento. È l’idea del percepirsi in vita. Quando c’è questo bagaglio non verbale, devi solo edificare sulle fondamenta». Ascoltando le tracce che compongono questo viaggio in forma musicale, a pulsare è, innanzitutto, la vita dell’isola, verso cui la trentaduenne originaria di Tempio Pausania ha rinnovato il proprio amore con un’urgenza persino rivoluzionaria, se consideriamo i tempi che corrono. Laddove lo sradicamento sembra essere la condizione obbligatoria, e perfetta, per il cittadino globalizzato, questo lavoro giunge a ricordarci l’esatto contrario: che esistono tradizioni e storie cui richiamarsi non pare affatto una cattiva idea. A iniziare, per la scrittura dei testi, dall’utilizzo del gallurese antico che, insieme a frammenti di lingua italiana e vocalizzi indistinti, contribuisce a fare di Spira, proprio sul piano linguistico, un’opera completamente destrutturata e incoerente. Ma non per questo priva di senso. Il risultato è un amalgama visionario e ipnotico di pura poesia sonora che a molta critica ha fatto gridare al capolavoro (anche un ascoltatore attento e mai banale come Camillo Langone lo ha inserito nella sua lista dei dischi più belli dell’anno). Lo stesso titolo dell’album è un richiamo all’emissione di voce, al fiato, che non necessariamente si traduce in logos. In un’epoca in cui la manipolazione orwelliana della parola è diventata la prassi, l’autrice ha imboccato una strada ostinatamente contraria: quella di sciogliere la lingua dal vincolo semantico, e caricare ogni singolo suono di un’importanza sacrale.

Certo, qualcuno avrebbe storto il naso. Gabriele D’annunzio, ad esempio, una volta disse a Ugo Ojetti: «Credente nell’assoluta superiorità della parola su tutti gli altri mezzi di espressione io son certo che la prima luce verrà sempre da un libro. Ex libro lux». La voce e il verbo, va detto, hanno sempre alleviato, sostenuto, incoraggiato l’esistenza dell’uomo, anche nelle situazioni più tragiche. Si pensi al caso di Osip Mandel’stam, il grande poeta russo, che resisteva al soffocamento dei lager staliniani ripetendosi Dante; o a Primo Levi, anch’egli alle prese con la Divina Commedia da recitare agli internati di Auschwitz. Ma canzoni come “Ca mira”, “Làira” e “Arca” di Daniela Pes, vere e proprie gemme di rarefazione elettronica, sembrano rispondere più al motto felliniano “Nulla si sa, tutto si immagina” (nel caso del regista riminese, forse la cifra di tutta la sua poetica). Un aspetto che rende questo lavoro doppiamente estremo. Tanto nel linguaggio espressivo quanto in quello musicale.

A tal proposito, si percepiscono nitide le influenze dell’autrice, dal folk cantautorale all’improvvisazione jazzistica, fino alla musica tribale e le sperimentazioni più contemporanee. La sintesi è di un disco pop capace di combinare elementi sia della tradizione che d’avanguardia, dove la ricerca dell’immediatezza non tradisce alcun ammiccamento nei confronti del pubblico. La lunga suite finale dal titolo “A Te sola” potrebbe figurare, in questo senso, come la traccia riassuntiva di tutto l’album, in cui le anime che l’autrice ha voluto convocare per l’occasione trovano il modo, infine, di congiungersi. Spira potrebbe essere anche un’autobiografia musicale, se non coincidesse con la condizione di un paese intero, l’Italia. Un paese sonnambulo, com’è stato definito, che incurante procede fuori dai binari della sua Storia. Quindi, condannandosi alla decadenza. Lo sguardo da combattente di Daniela Pes da cui siamo partiti è rivolto a tutti, nessuno escluso. C’è ancora qualcuno che abbia voglia di raccoglierne la sfida?

Foto dal profilo facebook di Daniela Pes

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