“Affondo la mia penna da anni in inchiostro-mare e vendo le mie tele ovunque: in ambienti snob, nei centri sociali, laddove la borghesia quella ‘rivoluzionaria’, alla francese, con la B maiuscola, ha le sue radici più inoltrate in fango-terreno blocco di cultura”. Facevo parlare così, poco più che ventenne, il protagonista della mia opera prima teatrale, Scritti metropolitani per violino, messa in scena in una cantina dell’OFF romano un bel po’ di anni fa.
Il protagonista, un vecchio ritrattista, pittore molto in voga negli ambienti radical chic, interpretato allora da Carlo de Mejo, svampito e straordinario flaneur, figlio del mito Alida Valli, si prostituiva al mercato dell’arte degli ambienti più salottieri, quelli con la puzza sotto il naso, per intenderci. A lui “marchetta d’artista anarchico” interessava solo vendere le sue tele per comprare la sua vernice fantasia e colorare i cieli grigi dell’inverno metropolitano. A lui interessava solo continuare a dipingere nel suo loft tra pennelli, colori, odore di acquaragia e tazzine di caffè. Il suo mondo vero era lo studio dove coltivare sogni e addomesticare lo spirito. Ecco, mi piace descrivere così un’artista che con passione, sacrificio e incertezza crea quotidianamente l’opera d’arte: unico segno di immortalità dell’essere umano. Ho sempre nutrito un grande rispetto per tutti quei pittori che ogni giorno chiusi nel proprio mondo cercano ispirazione per un quadro che li renderà vivi per sempre. In questo numero viaggerete nei secoli con un popolo di artisti: quello italiano.
Tra tradizione e innovazione, come ci suggerisce quest’opera di copertina, l’Ulisse di Alex Folla, oppure voltando pagina per ammirare un altro capolavoro contemporaneo del quarantenne Roberto Ferri. Insomma, noi italiani siamo Caravaggio e Boccioni, Michelangelo e De Chirico, sappiamo attraversare le epoche con maestria. L’importante è saper leggere i tempi, possibilmente posando l’iPhone e riprendendo in mano pennello e colori.