“Quando fai il puro arriva sempre uno più puro che ti epura”, pare abbia detto Pietro Nenni in riferimento alla Russia di Stalin. Ebbene, a fare virtue signaling, ovvero lo sbracciarsi per far vedere quanto si è virtuosi per il politicamente corretto, tipico degli ambienti di sinistra woke, si può finire a inciampare in inchieste che hanno dello scandaloso.
Scandaloso non solo per il contenuto, quanto per il contorno.
È questa la vicenda della coppia di giornalisti Nello Trocchia e Sara Giudice, rispettivamente penna di “Domani” di Carlo De Benedetti e volto di Piazzapulita, trasmissione di La7 diretta da Corrado Formigli: due delle corazzate mediatiche della sinistra più liberal. Una vicenda che sarebbe rimasta ignota ai più ma che è stata rivelata solo grazie a un’inchiesta de “La Verità”, condotta da Simone Di Meo e pubblicata lo scorso 29 agosto, in cui sono esposti i dettagli che riprendiamo qui.
Trocchia e la Giudice, secondo Di Meo, sono infatti accusati di aver tentato una violenza su una collega, che ha denunciato nel febbraio 2023 (non è un refuso: 18 mesi fa) di essere stata presumibilmente drogata e indotta a unirsi a un’ammucchiata in casa loro. Salita in taxi con la coppia, all’ultimo, riacquistando un po’ di lucidità, la ragazza sarebbe riuscita a rifiutare la pressante offerta di menage à trois della coppia e a rifugiarsi nello stesso taxi, il cui conducente, dopo aver fatto scendere il terzetto, era rimasto fermo, ovviamente incuriosito dalle evidenti intenzioni piccanti che i suoi passeggeri avevano ostentato durante il viaggio.
Il giorno dopo l’accusatrice, riaccompagnata a casa in stato di shock, è insospettita dalla difficoltà con cui riusciva a recuperare lucidità, e d’accordo col fidanzato si fa sottoporre a esame delle urine, risultando positiva al Ghb, l’acido gamma-idrossibutirrico meglio conosciuto come «droga dello stupro».
A questo punto scatta la denuncia. E inizia la vicenda torbida, quella dell’inchiesta.
Infatti, il tassista finisce col cellulare sotto sorveglianza, e spettegolando con un amico sui motivi della sua convocazione da parte della Mobile, conferma la versione dei fatti data della giornalista: «Niente, era la storia de una che mi è entrata in macchina… uno che ha cominciato a provà con la moglie, ce provavano tutt’e due con questa… se la volevano portà a casa, io l’ho presa e l’ho riportata a casa a lei…», riferisce Simone Di Meo.
Trocchio e la Giudice vengono convocati dalla PM mentre la giustizia acquisisce il campione di urina della ragazza. La versione data dalla coppia è opposta: sarebbe stata la loro collega a insistere per fare un’orgia a tre. Inoltre, dalle ulteriori analisi ordinate in procura, il campione d’urine risulterebbe ora negativo. La richiesta della denunciante di ripetere l’esame su un campione di capelli sarebbe stata respinta. Inoltre la PM non ha ritenuto di dover ascoltare direttamente la ragazza, cosa che – nei casi previsti dalla legge c.d. “codice rosso” – dovrebbe essere di prassi. Risultato: richiesta di archiviazione, perché sebbene la vittima fosse «non in grado di determinarsi» per la Giudice e Trocchio si sarebbe trattato di un «errore in relazione al suo consenso».
La versione della coppia è alquanto in contrasto con quella data sia dalla giornalista che – separatamente – dal tassista. Resta inoltre il buco nero della doppia analisi, prima positiva e poi negativa, del campione di urina.
Ora la palla è al giudice per le indagini preliminari.
In attesa di chiarire la vicenda, con tutto il garantismo che è dovuto agli indagati, non può sfuggire il contorno di tutta questa storia. Un fatto risalente a oltre un anno e mezzo fa, che è occultato dai media nonostante la sua evidente notiziabilità per i contorni degni di un porno sadomaso-soft. Ma soprattutto nell’ottica ideologica del “trust women” che anima l’ambiente culturale in cui si muovono Trocchio e la Giudice: una donna che denuncia uno stupro “ha sempre ragione” e va sempre creduta (salvo poi ignorare le statistiche che mostrano come la stragrande maggioranza di questi casi finisca con il proscioglimento dell’imputato al quale, però, nel frattempo si è rovinata la vita, soprattutto grazie ai giornali che sbattono il “mostro” in prima pagina…). Un’ideologia tossica, portata avanti a suon di manifestazioni MeToo e conformismo femminista mediatico col risultato d’aver introdotto surrettiziamente nei nostri sistemi giuridici la mostruosità procedurale dell’inversione dell’onere della prova: è l’accusato a dover dimostrare d’essere innocente, non l’accusatrice a dover portare le prove d’essere stata violentata.
E non è il solo aspetto di quel doppiopesismo (o two tier justice, anglicismo portato in voga dalle azioni poliziesche di Keir Starmer in Regno Unito in questi giorni): c’è anche l’evidente copertura di cui hanno goduto i due protagonisti della vicenda: Trocchio – fra gli estensori del famoso “rapporto europeo” che accusa l’Italia di scarsa libertà di stampa – e la Giudice – esperta per La7 di immigrazione, famosa per aver portato in trasmissione le scarpine di un bambino morto nel naufragio di un barcone. Fa notare la giornalista d’inchiesta Francesca Totolo sul suo profilo X: “La sottoscritta, dopo il solo avvio di un’indagine, era già colpevole per tutti i giornali di sinistra. Sono stata sbattuta su tutte le prime pagine con tanto di foto e biografia, come fossi una terrorista reo confessa, quando ancora ero a colloquio con i carabinieri e, per questo motivo, non potevo nemmeno rispondere prontamente alla campagna di fango”.
Per la Giudice e Trocchio invece nessun “sussurro a mezza bocca nei gabinetti della Procura”, come per tanti altri casi finiti in prima pagina, specialmente su quelle testate più giustizialiste come “Domani” e molti dei format de La7. Auspicando che la Giudice e Trocchio siano innocenti e si sia trattato solo di un equivoco fra i tre, non si può non notare come un caso che farebbe andare in brodo di giuggiole la stampa scandalistica e quella forcaiola invece resta totalmente ignoto ai media per ben 18 mesi.
Quale che sia l’esito dell’indagine, dunque, rimane aperto il problema del rapporto malato fra procure e testate e del doppiopesismo con cui vengono trattati i casi, che si tratti di poveri cristi trasformati in “mostri”, di avversari politici da demolire oppure di gente “del giro giusto” che occorre tutelare, anche a costo di rinunciare allo scoop.