Ha conquistato le prime pagine dei giornali italiani il caso di Ilaria Salis, l’insegnante rinchiusa da quasi un anno in un carcere ungherese per lesioni gravi e presunti legami con gruppi terroristici, fotografata mentre è ammanettata con metodi alquanto discutibili. Certo lo sguardo sfoggiato nel tribunale di Budapest, non sembra quello di chi si dichiara innocente, ostentando strafottenza davanti ai giudici, come appare dalle foto pubblicate sulle principali agenzie di stampa nostrane.
Queste tutte quante attente a non entrare nel dettaglio del perché la Salis sia finita in un tribunale ungherese, con quel regime di detenzione che tanto fa strillare le nostre anime belle: l’accusa (tutta da dimostrare, beninteso) di tentato omicidio, lesioni gravissime ai danni di alcuni ragazzi ungheresi accusati di far parte di gruppi neonazisti. Un pestaggio aggravato, premeditato da parte di un’organizzazione transnazionale di chiara matrice brigatista, già protagonista in Germania di feroci imboscate. La modalità è sempre la stessa, come si vede dai video che riprendono queste bestiali aggressioni: sei-otto persone (in maggioranza donne), travisate, armate di manganelli telescopici e spray al peperoncino, attaccano alle spalle le vittime isolate. Le pestano a sangue e le accecano senza pietà, mentre un paio di loro fanno il palo, dovesse intervenire la forza pubblica. Poi fuggono. È già un miracolo che non ci sia scappato finora il morto.
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Sono dunque le foto delle vittime, che dovrebbero raccapricciare, e molto prima che non gli usi giudiziari esagerati nella gestione degli imputati. Manette e catene, del resto, sono un’abitudine corrente in tanti altri regimi carcerari di paesi nostri alleati o amici – primo fra tutti gli Stati Uniti – e non risultano particolari giaculatorie da parte di attivisti, partiti politici, ONG per invocare trattamenti meno severi per i nostri concittadini che incappano nella giustizia all’estero. Anche per coloro che vi incappano davvero per errore giudiziario o con imputazioni che al nostro codice penale apparirebbero sproporzionatamente lievi rispetto al trattamento ricevuto.
Per la Salis no.
Ovviamente siamo garantisti e per dare un giudizio sulla persona aspettiamo la sentenza di terzo grado. Secondo il padre della Salis, la donna sarebbe estranea al gruppo, quando è stata arrestata è stata trovata in possesso di un manganello che secondo il padre serviva per difesa personale. Tuttavia in molte manifestazioni di solidarietà dell’estrema sinistra in difesa della Salis, l’attacco ai neonazi viene rivendicato. E anche l’atteggiamento della Salis in aula di tribunale e le dichiarazioni contro il sistema carcerario ungherese (che, carte alla mano, ha ovviamente smentito tutto, dalle torture ai topi in cella) non sono certo quelli di una persona coinvolta in un errore giudiziario.
Bisognerà aspettare la sentenza. Sulle motivazioni ideologiche e il doppiopesismo con cui sono sempre stati coccolati, difesi, perfino esaltati gli estremisti di sinistra (da Battisti a Cospito) s’è già detto tutto, et de hoc satis.
Ci sono poi quelle opportunistiche: l’attacco al governo di Victor Orban – leader che gode di uno dei più alti indici di sostegno da parte del proprio popolo in Europa – che è la pecora nera dell’Unione, la spina del fianco dei progressisti, dei fanatici del green e delle organizzazioni arcobaleno. L’attacco è anche al nostro governo, per costringerlo a prendere una posizione contro un suo interlocutore privilegiato.
È giusto naturalmente che il governo italiano si muova per riportare in patria un concittadino nei guai giudiziari. Ma solo perché qui venga giudicato e se trovato colpevole dopo giusto processo secondo le nostre leggi, risponda dei reati commessi in terra straniera, infangando il nome del nostro paese, per giunta.
E se qualcuno pensa che la foto della Salis in manette sia peggio di quella della sua vittima pesta e cieca per le botte e le ustioni, ha un serio, serissimo problema di bussola morale.