Chi è dappertutto non è da nessuna parte: collettività vs comunità

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Theodor von Hörmann, Public domain, via Wikimedia Commons

Una delle parole più inflazionate dallo scoppio della pandemia è “comunità”. Le persone la usano spesso come espediente retorico, finalizzato ad esprimere con più veemenza il bisogno di proteggere i concittadini dal morbo cinese. Forse però, è utilizzata impropriamente. Prima di tutto bisognerebbe capire cosa sia la comunità: un insieme di individui che condividono alcune caratteristiche come lingua, fede religiosa e territorio. Questi tratti in comune definiscono un’identità che i membri della comunità sentono propria.

Secondo Michael Sandel, uno dei padri del comunitarismo, proprio questo forte senso di appartenenza genera un ideale comune di bene verso cui volgere gli sforzi comuni. Questo bene da raggiungere è un legame fondamentale, tuttavia molto spesso le relazioni di carattere direttamente materiale sono altrettanto importanti.

La stessa etimologia di comunità ci aiuta a capirlo: deriva dal latino communitas, termine composto a sua volta da munus e dal prefisso cum. Il munus è il compito, il dovere mentre il cum sottolinea la relazione di interdipendenza tra i vari individui. Noi siamo comunità in funzione del nostro compito. Non a caso il nucleo della comunità risiede, come suggerisce Aristotele, nella famiglia, dove ogni componente ha un ruolo ben definito.

Individuare altre forme di comunità estendendo questo ragionamento al resto della società è difficile. Fino a qualche decennio dalla fine della seconda guerra mondiale, i rapporti economici erano ben diversi: in quasi ogni borgo c’era un piccolo negozio di alimentari, ciascun paese aveva il proprio ciabattino di riferimento e il proprio mugnaio di fiducia. Le persone avevano un ruolo, dal padrone per cui si lavorava al contadino che coltivava i campi. Il pane che si mangiava aveva il volto del panettiere che lo aveva sfornato. Oggi invece il pane si compra al supermercato, perdendo il contatto con il “genitore” di quel prodotto e con esso ciò che rende quella persona necessaria e preziosa, quasi vincolata a noi da un filo emotivo. L’impersonalità delle merci odierne ha dunque reso meno evidente il contribuito, il munus che ogni individuo svolge nei confronti della società, rendendolo contingente.

Caduto il legame materiale che lega la comunità, non ci si può appellare a quello identitario: il clima di delegittimazione di valori come la religione, la famiglia e la nazione, ha portato all’omologazione generale degli strati sociali. Seneca diceva “chi è dappertutto non è da nessuna parte” e proprio per questo motivo, poichè le differenze tra i popoli si riducono sempre di più, si sente di appartenere all’intero mondo quando in realtà non si appartiene a nulla.

La comunità non esiste più eppure si continua a dire che occorre proteggerla. Sarebbe però più consono appellarsi alla protezione di quella massa informe e indefinita che è la collettività. In un mondo sempre più individualista, dove a causa della costante competizione ogni uomo è un rivale, come può un giovane percepire il dovere morale di difendere i più anziani se nessun vincolo li lega? Certo esiste la solidarietà e il diritto alla vita, ma bastano questi valori a convincere un uomo a rinunciare alla sua vita, alle passioni che la caratterizzano e che le danno senso? La risposta sta nel concetto di comunità, ma proprio il ceto che la usa come un instrumentum regni è responsabile della sua distruzione.

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