
A che cosa serve la storia? Provò a rispondere, una settantina di anni fa, Lucien Febvre pubblicando postumo lo splendido saggio di Marc Bloch, Apologie pour l’Histoire, ou métier d’historien (da cinque anni il grande Bloch era caduto sotto il piombo tedesco). Ma alla risposta data da Bloch a una domanda forse pleonastica, curiosa, forse polemica, forse impertinente, forse retorica, oggi si dovrebbe rispondere in modo aggiornato. Nemmeno il Maestro di Lyon poteva prevedere, quando fu costretto ad abbandonare questo mondo, gli sviluppi attuali di alcuni problemi che ci assillano: dallo straordinario incremento demografico globale alle conseguenze della concentrazione della ricchezza, dell’impoverimento dei ceti subalterni extraeuropei, dell’inquinamento eccetera. Proviamo a fare il punto, brevemente, su alcune di tali questioni. Più specificamente, sulla città, un tema centrale almeno da sei millenni (non si è nomine se non si è cives, dicevano i Romani e si ripeteva nel Medioevo): ma che negli ultimi decenni ha raggiunto vertici di problematicità e di drammaticità di gran lunga superiori a quelli che aveva toccato dal tempo dell’antica Tebe d’Egitto a quello della Manhattan di Fiorello La Guardia. La crescita improvvisa dell’inurbamento e dunque della concentrazione di masse all’interno di spazi definiti ha generalmente provocato reazioni e tentativi di contenimento-orientamento. La pianificazione urbana in senso lato accompagna la nascita stessa della città, un fenomeno che si data generalmente nel terzo millennio a.C. in relazione alle civiltà mesopotamica, della valle dell’Indo, minoica ed egizia. Già in epoche ai nostri occhi remote la novità dell’insediamento urbano rispetto all’abitato sparso comportava scelte di organizzazione che variavano da zona a zona, ma che seguivano dei patterns comuni legati alle nuove necessità: smaltimento dei rifiuti, divisione degli spazi fra città dei vivi e dei morti (i luoghi di inumazione dei defunti), rapporto fra spazio profano e spazio sacro, approvvigionamento, soprattutto idrico, e così via. Il popolamento delle città non ha seguito nella storia un cammino progressivo; fasi di intensa urbanizzazione si succedono ad altre di rarefazione, e naturalmente questi fenomeni variano enormemente da zona a zona negli stessi periodi: per esempio, mentre nell’alto Medioevo europeo le città si riducevano a villaggi, nel mondo arabo, arabo-persiano e cinese l’urbanesimo fioriva. Ancora alla fine del XIII secolo, sebbene le città europee fossero in espansione, Marco Polo si stupiva dinanzi ai centri urbani cinesi immensi per proporzioni rispetto alla sua Venezia. Alla crescita del Duecento avrebbe fatto seguito un secolo di crisi economica, climatica ed epidemica (pestilenziale): le città ne uscirono a volte svuotate, i villaggi abbandonati. Ma fu una “crisi di crescita”, quanto meno problematica e concettuale: già nel Quattrocento s’immaginavano città ideali e qualche volta si provava a realizzarle: come la Pienza di papa Pio II o l’Addizione Erculea realizzata a Ferrara per iniziativa di Ercole I d’Este. La città moderna, in fondo, non conobbe speciali innovazioni rispetto alla problematica antica quanto meno fino al Sette-Ottocento: nella Parigi o nella Québec del Seicento si riparavano le vecchie mura oppure le si ampliavano e le si rinnovavano come per secoli si era fatto, quanto meno in Europa; i sistemi di raccolta delle acque e dei rifiuti non erano granché cambiati tra Medioevo ed età moderna, e quanto a salubrità dei pozzi, delle cisterne e delle fognature nella Roma imperiale si viveva senza dubbio meglio e in condizioni migliori che non nella Londra di Shakespeare e dintorni (in altri termini, l’incendio di Roma del 64 d.C. ebbe conseguenze meno letali di quello di Londra del 1666). Sarebbe stato necessario attendere il Settecento illuminista e il (provvidenziale) dispotismo napoleonico per ottenere un avvìo di legislazione sistematica – anche se gli statuti cittadini dal Medioevo in poi non erano certo sordi in materia… – circa lo smaltimento dei rifiuti e i problemi derivanti dalle inumazioni intramurarie. Il grande balzo in avanti, poi, sarebbe avvenuto con l’energia elettrica, gli impianti idrici e igienici capillari ed estesi alle abitazioni private, la “primaria” e “secondaria” urbanizzazione, le tramvie, le ferrovie metropolitane di superficie o underground, la “rivoluzione urbanistica” sovietica e fascista, l’occidentalizzazione delle capitali coloniali eccetera.
Ma oggi siamo ormai in tempi di una nuova, necessaria “rivoluzione urbanistica”. Il problema è capire in quali e quanti sensi essa dovrebbe (dovrà) svilupparsi. Da diversi decenni a questa parte, ormai, l’inurbamento ha avuto un’impennata pressoché ovunque nel mondo, per ragioni demografiche (la popolazione mondiale è cresciuta in modo esponenziale: nel secondo dopoguerra si aggirava sui due miliardi e mezzo, oggi ha ormai superato i sette) e per l’impoverimento sociale, culturale ed economico delle campagne: fenomeno quest’ultimo che si presenta anche nei paesi fino ad oggi caratterizzati da un alto sviluppo socioeconomico come il nord America e l’Europa occidentale, ma tanto più in quelli cosiddetti “in via di sviluppo” (espressione ch’era un tempo sinonimo di deterministico e autoritario dirigismo e che ormai è dievenuta semplicemente eufemistica). Tale inurbamento può dar luogo a megalopoli derivanti dall’espansione di un’unica grande città oppure risultanti dall’unione fra diversi nuclei urbani: è il caso della regione metropolitana Reno-Ruhr con i suoi oltre dieci milioni di abitanti, esito della crescita non perfettamente programmata delle singole aree urbane di Colonia, Bonn, Düsseldorf, Mönchengladbach, Krefeld, Wuppertal, e che ha dunque natura policentrica. In Europa occidentale il caso più interessante di crescita di un singolo centro urbano è dato da Parigi; è tuttavia anche un caso peculiare poiché Parigi-città, ossia l’area composta dai venti arrondissements ‘storici’ conta meno di due milioni e mezzo di abitanti, mentre l’area metropolitana (il cosiddetto Grand Paris) supera i dodici. È per questo, probabilmente, che la capitale francese è stata almeno fino dai tempi di Napoleone III e dell’architetto-urbanista Haussmannun interessante laboratorio di programmazione urbana – o almeno di tentativi di realizzarla. In tale contesto, un’attenzione particolare si deve ormai alle periferie, che pongono problemi urbanistici non meno che sociopolitici e ormai perfino etnoantropologici. La problematica, anzi la polemica al riguardo, è vecchia: già Céline proponeva di “sventrarle”, ma il vecchio nihilista non era certo un esperto d’urbanistica. Le banlieues francesi, a differenza di quelle anglosassoni che accolgono le classi medie bianche, furono create nella seconda metà del XIX secolo per ospitare i ceti popolari-operai; dopo la crisi economica della fine dell’Ottocento, l’introduzione di nuove tecnologie – automobilistica, aeronautica, costruzione elettrica – ha trasformato i comuni in questione (Boulogne-Billancourt, Puteaux, Suresnes, Vénissieux) in tecnopoli high-tech (per i tempi), ma a condizioni salariali e con garanzie inferiori rispetto alle città. La deindustrializzazione della seconda metà del Novecento ha fatto sì che gradualmente esse fossero aperte per inglobare i flussi migratori, prima interni poi stranieri: senza alcun apporto di servizi sociali e culturali, le banlieues si sono trasformate in ghetti a connotazione razziale; solo in questi ultimi anni alcuni HLM (gli alloggi sociali) vengono costruiti anche in centro, ma la proporzione resta modesta. C’è da rabbrividire pensando al fiume d’insulti con il quale Céline avrebbe salutato lo sviluppo urbano e periferico di questi ultimi anni. Allo stesso tempo, il centro di Parigi conosce problemi gravi di sovrappopolamento: per dare un’idea, la densità abitativa della capitale francese con i suoi oltre 21.000 abitanti per kmq è più simile a quella di Calcutta (25.000 circa) che non a quella di Londra (5584). Di qui la necessità di creare alternative per i ceti medi: partì alla fine degli Anni Sessanta l’esperimento delle villes nouvelles costruite come “città ideali” (ossia servite da trasporti, ma dotate anche di scuole, tribunali, spazi di socializzazione); le più celebri intorno a Parigi sono Cergy-Pontoise e Marne-la-Vallée. L’esperimento ha un discreto successo, che tuttavia declina nel tempo: le cinque nuove città dell’Ile-de-France ospitano 850.000 persone e hanno assorbito fino alla metà della crescita demografica dell’Ile-de-France tra il 1975 e il 1990; da allora, però, ne hanno accolta solo un sesto. Da notare che l’impianto politico di certi problemi, considerato dalla prospettiva delle autorità di governo, non è granché mutato: l’idea haussmanniana che i grandi boulevards fossero provvidenziali per le cariche di cavalleria destinate a ristabilire l’ordine in caso di sommossa (nelle strette e sinuose vie del centro era fin troppo facile costruire barricate come nel 1830 e nel 1848) non era molto mutata quando, come ministro degli Interni di Chirac, Nicolas Sarkozy inveiva contro la racaille musulmana e africana delle banlieues…
Quando oggi si parla di smart cities si riflette soprattutto sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie nella trasformazione della qualità della vita negli agglomerati urbani. In molte città si sperimenta in che modo la digitalizzazione può aiutare i cittadini fornendo loro servizi: database fruibili liberamente con informazioni sulla città nella quale si soggiorna; cablatura; risparmio energetico; lotta all’inquinamento. In alcuni progetti all’avanguardia si pensa di costruire città che già in partenza sono smart cities sul piano digitale ed ecologico: come la ville nouvelle di Songdo in Corea del Sud, concepita per essere un centro d’affari, ma dalle tecnologie smart. Più difficile allo stato attuale delle cose dire quanto davvero tali nuove tecnologie potranno modificare la vita nelle grandi realtà urbane già esistenti: soltanto in superficie, soltanto per quote della popolazione privilegiata che avranno accesso a servizi sempre più aggiornati (e costosi), o in modo più generalizzato? La grande sfida, purtroppo, è forse proprio questa. Blade Runner era ambientato nel 2019, forse con qualche “precoce” (?) pessimismo ideologico accusabile di utopismo o di reazionarismo: ma già a partire dai prossimi anni si capirà meglio se le città del futuro assomiglieranno più all’incubo di Philip K. Dick tradotto in immagini da Ridley Scott oppure alle città ideali sognate nel Rinascimento. Il futuro è già qui; anzi, probabilmente, per certi versi il domani era già ieri.