Il santuario di Bona Dea, che Sesto Properzio, tra la fine del I° secolo a. C. descrive nella nona elegia, è una rustica casa, circondata da una palizzata di legno, immersa in uno scenario agreste e circondata da un ombroso bosco risonante dello stormire al vento degli alberi e del canto degli uccelli. Le bende purpuree che adornano l’ingresso indicano però che si tratta di un luogo sacro pubblico e che il culto virgineo che vi si pratica è «pro salute populi latini».
La rappresentazione poetica è probabilmente un arcaismo, secondo il gusto callimacheo del momento, di una situazione non più esistente perché, negli anni in cui Properzio pubblica il IV libro delle Elegie, il santuario era già stato rinnovato nelle forme monumentali da Livia Drusilla che, occupandosi dei culti femminili, affiancava la «restauratio moris maiorum» intrapresa dal marito Ottaviano Augusto. Dalle pagine degli scrittori cristiani (Tertulliano, Arnobio e soprattutto Agostino, Isidoro e Paolo Diacono) si apprende che il tempio, tra i più imponenti di Roma, fu frequentato ed attivo almeno fino V secolo dopo Cristo, quando fu trasformato nella basilica paleocristiana di Santa Balbina, come sembrano suggerire le mura in opus listatum che fanno da base a quelle dell’annesso monastero, di cui si ha la prima notizia nel 595.
All’ampliamento di Livia Drusilla, che si fece spesso raffigurare con gli attributi di Bona Dea, è connessa la colossale statua descritta da Marco Tullio Cicerone e attualmente esposta nel cortile dei musei vaticani. Si tratta di un’interpretazione dell’arcaica Junio sospita (Giunone propizia). La rappresentazione, in cui la divinità è armata di giavellotto e ancile, con indosso una pelle di capra, il cui cranio le ricopre la testa a modo di elmo, le zampe anteriori costituiscono l’allaccio che la ferma sulle spalle e il resto è il mantello che le ricade sul dorso, di sovrappone a quella classica che di una imponente matrona seduta in trono, con il capo velato e gli attributi della cornucopia nella mano destra e la patera in cui si abbevera il serpente iatrico nella sinistra. Non si tratta però di una innovazione perché l’abbigliamento zoomorfico e guerriero rimandano a Junio Caprotina, divinità latina paleolitica della forza della natura e della fecondità femminile, con la quale Bona dea ha evidenti punti in comune, raffigurata con corna e orecchie caprine, mentre armata guida una biga trainata da due scalpitanti irchi.
Riguardo le armi che la connotano come divinità poliade, che insieme a Juppiter pater optimus maximus e alla Virgo regia (Menerva) costituisce la triade capitolina, è appena il caso di aggiungere che si tratta di due oggetti di grande rilevanza mitica. Il giavellotto è quello feziale con il quale il pater patratus rappresentava il diritto di Roma di stabilire patti, anche di guerra, con gli altri popoli, e l’ancile, è il mitico scudo caduto dal cielo e custodito dal Collegio dei Fratelli Sali come garanzia di vittoria.
Il culto di Bona dea, premesso che le donne romane frequentavano il santuario dell’Aventino in qualsiasi data a seconda delle necessità personali, tuttavia nella sua forma pubblica aveva due date principali: a maggio e ai primi di dicembre, ambedue assolutamente precluse alla componente maschile
Si trattava di due eventi molto aventi funzioni diverse: quello delle calende di maggio era un rito iniziatico che preparava le adolescenti, prossime al matrimonio, a prendere consapevolezza dei doveri connessi allo status di matrona e di madre, del necessario confronto tra la sessualità femminile e quella maschile, in considerazione che da un’armonica unione dei coniugi dipendevano la «spem nascenti et nominis» della famiglia. In questo contesto morale entrava in scena il vino, probabilmente il temetum merum, introdotto nel santuario in vasi mellarii (come se fosse miele e latte) e bevuto ritualmente dalle ragazze per le quali rappresentava il primo impatto, e non certo gradevole, con la bevanda, affinché imparassero a conoscerne gli effetti e a controllarli.
Dalle descrizioni della festa, tutte redatte da uomini che non vi avevano mai assistito, non risulta però che ci siano state degenerazioni orgiastiche, ma al contrario tutti concordano che la giornata si svolgesse come una ordinata e lieta riunione di donne intente a celebrare un rito sacro tra i più antichi e popolari di Roma.
Esclusiva e politica era invece la festa notturna che si celebrava, qualche giorno prima le none del decimo mese, organizzata nella propria casa, dalla moglie di un alto magistrato «cum imperio», ovvero esercitante una funzione pubblica. Di essa, o per lo meno di quella che la notte tra il 4 e 5 dicembre del 62 a.C. fu interrotta da uno scandaloso affaire, abbiamo una descrizione dettagliata, anzi un dossier di atti processuali e testimonianze che coinvolsero gli uomini più importanti di Roma.
Il magistrato cum imperio di quell’anno era Giulio Cesare, eletto pretore dopo essere stato pontefice massimo, il rito si svolgeva nella sua lussuosa residenza sulla via sacra summa, la matrona che organizzava era sua madre Aurelia Cotta della gens Rutilia, coadiuvata dalle figlie, tra cui Giulia madre di Ottaviano, e da Pompea Silla, nipote di Lucio Cornelio Silla e seconda moglie di Cesare. Come ogni anno erano presenti, su invito, la Vestale massima a cui spettava dirigere i sacra, le mogli dei consoli, dei senatori, insomma l’élite femminile dell’Urbe.
Com’era d’uso, anche in quella occasione erano state introdotte le anfore del vino, non solo il temetum per le libagioni e il sacrificio di una scrofa gravida, ma anche i vina secundaria per l’intrattenimento delle illustri ospiti per le quali erano previsti una sontuosa cena, spettacoli e giochi di società fino all’alba.
Nel cuore della notte e nel bel mezzo dei festeggiamenti si intrufolò per la casa una strana citarista che suscitò subito i sospetti Aurelia Cotta che, strappandole il velo, ne rivelò l’identità maschile. L’empio sacrilego era Publio Clodio Pulcro, rampollo dell’aristocratica gens Claudia, ma leader dei populares, conosciuto come un giovane irrequieto, arrogante ed attaccato al denaro. La festa fu subito sospesa, le matrone indignate dell’affronto subito, che offendeva il nome di tutte le romane, presenti, passate e future, se ne dolsero con i mariti chiedendo giustizia, tanto che fu necessario convocare un Senatus consultus per purificare la casa e istruire un processo contro il colpevole, di cui il maggior accusatore risultò Marco Tullio Cicerone.
Si disse che Clodio fosse l’amante di Pompea Silla, ma nessuno ci credette perché era chiaro che si trattava di una provocazione ordita dai Populares contro Cesare che, sia pure non apertamente, appoggiava gli Optimates.
Come tutti gli intrighi politici, il processo fece molto rumore, i populares inscenarono tumulti di piazza per intimidire i giudici, Giovenale ci scrisse una delle sue satire condite di osceni, quanto immaginari particolari, Cicerone gridò che a Roma la giustizia era morta, Cesare ripudiò la moglie con la celeberrima motivazione che «sulla moglie di Cesare non può gravare nemmeno il sospetto», e Clodio, infine, nonostante l’accusa di incestus, per un delitto contro la natura e contro la religione, fu condannato ad un’ammenda pecuniaria, ma con l’appoggio del console Lucio Licinio Murena, ottenne l’amministrazione di una ricca provincia.
Insomma ieri come oggi, nulla di nuovo sotto il sole dei Roma.