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Il dibattito parlamentare non è un talk show dove vieni quasi sistematicamente interrotto dai tuoi interlocutori e dove spesso può -passatemi il termine- “scappare la frizione” magari usando parole “sbagliate” o comunque non appropriate. No. Il dibattito parlamentare -salvo rarissimi casi che possono portare all’interruzione della seduta- prevede tempi ben contingentati ed organizzati per esprimere il proprio pensiero. Pensiero che chi parla ha modo di scrivere, correggere, limare e controllare prima di esporlo in Parlamento. Se poi sei anche Presidente del Consiglio ti prendi tutto il tempo che ti serve per parlare. Senza limiti o costrizioni. Soprattutto se il dibattito è di cruciale importanza per l’esito della legislatura. Come appunto quello avvenuto mercoledì 20 luglio al Senato. Il riassunto delle puntate precedenti è più o meno questo: (1) il 14 luglio il premier Draghi rassegna le proprie dimissioni in quanto il M5S si era allontanato dall’aula al momento dell’approvazione del cosiddetto Decreto Aiuti. Essendovi posta la cosiddetta questione di fiducia è chiaro che il movimento guidato (forse?) da Giuseppe Conte -pur non sfiduciando l’esecutivo di cui fa parte- ha inviato un segnale fortissimo che Mario Draghi ha subito colto al volo senza farsi pregare due volte. E qui arriviamo al punto (2). Il Presidente del Consiglio è subito salito al Quirinale per rassegnare le proprie dimissioni. Queste sono state correttamente respinte dal Presidente della Repubblica, il quale ha chiesto Mario Draghi di presentarsi al Senato per “parlamentarizzare” la crisi. Parola orribile che però vuol dire sostanzialmente questo: verificare senza possibilità di equivoci se questa maggioranza di governo ha ancora i numeri di partenza oppure no. (3) nel frattempo, è andato in scena un patetico teatrino di petizioni on line, microscopiche manifestazioni comunque super organizzate, appelli di professori e “conf qualcosa” pubblicati un po’ ovunque. Il messaggio era sempre lo stesso: “Draghi rimani perché senza di te saremo nel baratro”. Il resto è cronaca di queste ore. Ed è qui che torna in scena la differenza fra dibattito parlamentare e talk show. Nel suo discorso Draghi ha palesato un cambiamento di atteggiamento a dire la verità molto poco convinto. Manifestazioni popolari (?) “senza precedenti” e impossibili “da ignorare” (il tono e la rabbia con cui Draghi ha scandito questo verbo rimarranno virali nel web) lo avrebbero indotto a non ritenere le sue dimissioni “irrevocabili”. Toccava al Parlamento esprimersi. Questo governo ha o non ha la fiducia di questo Parlamento? Questa in sostanza è stata la domanda che Draghi ha rivolto ai senatori presenti. Peccato che abbia pensato ed utilizzato parole “talmente sbagliate” facendo di fatto palesare quello che era il suo vero stato d’animo: farsi dire di no fingendo di volersi fare dire di sì. È proprio così. Perché nel momento in cui Mario Draghi parla di avvenuta “rottura del patto di fiducia” che regge il suo esecutivo e di conseguente necessità di “ricostruire un nuovo patto” è di evidenza palmare che sta aprendo esplicitamente alla costruzione di un nuovo esecutivo. Un assist talmente perfetto che il centro destra insolitamente unito, attrezzato, organizzato e ben preparato ha colto subito al volo. “Caro Presidente ha ragione” è stata in sostanza la risposta di Lega e Forza Italia. “Serve un nuovo governo con lei presidente e senza chi questo patto di fiducia ha rotto. Vale a dire il M5S”. Draghi è stato immediato nel dire che non poteva esservi alcun altro esecutivo al di fuori di questo. La conclusione è solare. Draghi voleva farsi dire di no. Sa che ci aspetta un autunno freddissimo senza energia. E non vuol essere alla guida del Titanic che affonda. La parola toccherà finalmente agli italiani con il voto. Con il voto auspichiamo e speriamo, direi che ne siamo quasi certi, che sapranno prendere per mano il Paese.
PS: non credete alle favole. Non sono certo le petizioni ad aver indotto Mario Draghi a trasformare, almeno formalmente, le sue dimissioni da “irrevocabili” a “revocabili”. Le uniche telefonate che possono indurre Mario Draghi a cambiare idea sono quelle che arrivano da oltre oceano. A quelle non ha potuto di dire di no. Ma molto furbescamente è riuscite a farsi dire di no dal Parlamento.
Personalmente gioisco. Definii Draghi inadatto allo scopo quando fu nominato e i fatti hanno confermato le tristi previsioni. Ha fatto poco o nulla tranne riempirci di decreti inutili e contraddittori, ha salvaguardato Speranza e la sua dittatura sanitaria, ha reso l’Italia un porto aperto alla feccia mondiale, ci ha portati con l’acqua alla gola spendendosi per l’Ucraina come nessun altro da buon cagnolino di Biden, e ora se ne va lasciando il Paese intero nella m… fino al collo. La festa sarò completa solo quando sparirà dalla circolazione anche il suo compare, Mattarella: neppure il gatto e la volpe di collodiana memoria erano capaci di combinare simili disastri.
analisi completa ed esaustiva!
siamo nel guano, noi! lui no!
VI SIETE CHIESTI PERCHE SI VOTERA IL 25 SETTEMBRE???
La spegazione e’ molto semplice.
Per la validita della pensione parlamentare bisogna avere prestato servizio per 4 anni e 6 mesi.
Quindi il 21 settembre, esattamente 4 anni e 6 mesi, scatta la pensione ed il 23 settembre con il parlamento ancora legittimalmente in carica si va a votare salvando Capra e Cavoli…
ITALIANI BRAVA GENTE…..TENGO FAMIGLIA…
le 2 telefonate che hanno convinto Draghi sono venute da Letta e Mattarella , e così sono riusciti a far fare la figura dei cattivacci draghicidi a quelli del centrodestra , per non lasciare da solo Conte ( Conte puo’ essere ancora utile al PD in vista delle elezioni)