Esiste un settore sportivo da 160 miliardi di dollari l’anno ed in continua crescita, ma che a causa di pregiudizi generazionali viene periodicamente classificato come “semplice passatempo”.
Sono gli E-sport, competizioni professionali ed organizzate di videogiochi a livello mondiale.
Si possono ormai definire sport, non solo per l’effettiva preparazione e mentale e per l’allenamento intenso a cui ci si deve sottoporre per parteciparvici a livello agonistico, ma perché anche gli enti internazionali più autorevoli del settore cominciano a considerarlo seriamente.
Il 28 ottobre 2017 il Cio (comitato olimpico internazionale) dichiarava ufficialmente che gli E-sport vanno considerati attività sportiva a tutti gli effetti.
Si è arrivato al punto che si parlava di inserirli come giochi olimpici nel 2020, ma a causa dello stravolgimento mondiale portato dalla pandemia, la cosa è passata in secondo piano, spostandone il debutto alle Olimpiadi nel 2024.
Intanto ai giocatori professionali di tutto il mondo poco importa. Lo stipendio di un pro-player si aggira intorno agli 80.000 dollari al mese, come stipendio in busta paga, e fino a 30 milioni di dollari per la vincita di un torneo internazionale. Mica male!
Ciononostante esiste ancora un pregiudizio generazionale sui videogiochi a livello agonistico. Tecnica, riflessi e preparazione non sono essenziali perché sono “solo giochi e passatempi”. Ah, quanto si potrebbe dire lo stesso del calcio, del basket, del tennis…
Eppure il principio per cui milioni di ragazzi diventano spettatori appassionati degli E-sport, si accaniscono sulla compravendita di proplayer, per cui ne diventano fan e seguono puntualmente le loro partite, è lo stesso per cui migliaia di persone hanno seguito, amato e pianto Maradona.
Ragionando filosoficamente però si può comprendere la causa della paura nei confronti degli E-sport: non è (solo) l’ignoranza, è la digitalizzazione dell’essere.
Si ha paura che l’essere umano e la sua attività, quello che più lo rende reale e appunto UMANO, svanisca attraverso l’astrazione virtuale delle sue gesta e delle sue conquiste.
Allora, in questo dibattito sull’ufficializzazione degli E-sport come sport olimpici, non si dovrebbe anche riflettere sull’ufficializzazione della DAD come vera didattica?
Tutto questo serve a farci capire quanto ipocriti possano essere alcuni ragionamenti istituzionali (di stati e società).
Se gli E-sport non sono uno sport, allora la didattica a distanza non è didattica, perché viene a mancare quello che è il principio esistenziale dell’essere umano: la socialità.