Scrivere poesia è una pratica che accomuna ormai milioni di italiani, ma quanti di essi leggono liriche, specialmente contemporanee? Alfonso Berardinelli già nel 1975 rispondeva provocatoriamente alla domanda intitolando la propria antologia “Il pubblico della poesia”, come a voler dire che esso fosse composto unicamente dagli stessi poeti che la producevano. Oggi, senza alcun dubbio, possiamo dire che il pubblico della poesia è ben inferiore in numero a coloro che la producono.
Questo è uno dei motivi per i quali CulturaIdentità ha deciso di avviare una Rubrica che accolga i poeti contemporanei, così da dar loro spazio, renderli fruibili ovunque e in poco tempo, e far tornare le persone a leggere la poesia. Abbiamo deciso di avviare il progetto dando voce ad un giovane romano: Davide Olivieri.
Il racconto del poeta
Mi chiamo Davide e mi piace pensare di scrivere. Non perché non metta insieme qualche parola su di un foglio, quella è la parte semplice (e neanche facile…). Mi piace pensare di scrivere qualcosa di coeso, di profondo, che spero conterrà una vena – almeno una piccola vena, prima o poi – nuova rispetto alla grande miniera della letteratura già esplorata. Ho iniziato questo viaggio – come tutti – per caso, in un momento in cui si sente, e non si sa nemmeno perché, che l’atto di far danzare la penna sul foglio sia l’unico modo per alleviare un vuoto indefinito che ti monta dentro, che ti erode. Quel momento, per me, è stato intorno ai 18 anni.
È molto difficile descrivere brevemente la mia poesia: essa dipende da innumeri fattori. D’altronde, la famosa frase ‹‹Sarò breve!›› non penso sia stata detta da un poeta o da una poetessa. Posso limitarmi a dare una narrazione incompleta, parziale, offrendo qualche mio verso che si presta bene per l’occasione e aggiungendo che la poesia è (o meglio può essere pur dovendo esserlo) un fiume di immagini, con parole calde anche nel loro più algido senso:
Vuoi saper cos’è la mia poesia?
Versificazione
d’un emotivo certame.
Un’avvolgente barriera
di vetro
e ‘l fuori è specchio.
La poesia
OCRE
Hanno tagliato gli alberi del mio viale
insensibili inerti esecrandi (ma poco)
tumori
non sembrano più quelle docili fibre
d’un bosco che offre riparo e nasconde
zone di fertile terra
mediocre
rattrappite, scheletriche, povere
mani resuscitan fuor dalla Terra
algide e rigide in cerca d’un filo
nel cielo
tutto è inutile ormai
tutti i fili di foglie son stati falciati
di netto
or li comprendo.
E loro comprendono me
Commento
La poesia si apre con un verso prosaico, privo di metrica, che introduce la visione, la scena dalla quale parte il volo dell’estro. Tutti gli altri versi hanno un ritmo cadenzato, funebre; l’ultimo verso delle strofe centrali è sempre bisillabo, per evidenziare l’immagine descritta. Essa si completa nell’ultimo verso, l’unico a terminare con una parola tronca (me), non seguita, come invece ci si aspetterebbe, da un punto fermo, perdendosi quindi nel bianco del foglio, come il ramo troncato visto dal basso si perde nel cielo.