Prima della drammatica escalation dell’ultima settimana, la Libia – o quanto meno Tripoli, ormai ridotta a capitale di un moncone di un Paese diviso – appariva sospesa in una strana quiete.
Una calma che più di un libico attribuiva a una sorta di equilibrio dell’orrore o della paura; uno dei nostri interlocutori, per spiegare in modo più efficace il concetto, aggiungeva: “a casa mia siamo 5 maschi, tutti armati, nessuno si azzarderebbe a venire a rubare da noi, il rischio sarebbe troppo alto”. È questa la situazione in un Paese di circa 6 milioni di abitanti, dove gli arsenali di Gheddafi (che aveva tante armi ma non un esercito per usarle) sono stati saccheggiati e un AK si compra al mercato nero per 400 dinari (più o meno 100 euro).
Sembra la declinazione nordafricana di un famoso aforisma del filosofo-guerriero Ernest Jünger: i lunghi periodi di pace ci hanno fatto perdere la percezione di come la sicurezza di una casa è innanzitutto assicurata “dal Capofamiglia, armato d’ascia e spalleggiato dai suoi figli maschi”.
La sensazione straniante è rafforzata dalla fiumana di gente che – ogni pomeriggio – si riversa in strada, dai caroselli d’auto, dal traffico impazzito, dalle giostre montate e, sulla piazza che il Raís usava per le adunate di massa, dai chioschi che vendono popcorn e zucchero filato. Questo è lo spettacolo che mi è apparso dagli spalti del Castello Rosso di Tripoli. Da qui Gheddafi si sarebbe affacciato un’ultima volta per galvanizzare i suoi, per poi cercare l’abbraccio della folla, per dimostrare che lui non aveva nulla da temere dalla sua gente, dal popolo libico. Sappiamo come è andata a finire.
Il Castello Rosso aveva già ospitato l’amministrazione coloniale italiana e in particolare l’ufficio del viceré Italo Balbo, il più ingombrante tra i gerarchi che il Duce mandò a italianizzare (con un certo successo) la Quarta Sponda (la residenza della famiglia Balbo era invece uno splendido palazzo degli anni ’30 che oggi ospita il Museo della Libia).
Sempre nel Castello Rosso oggi c’è – assieme alla sede del Dipartimento di Antichità della Libia e a diversi archivi storici (tra cui quello fotografico e quello dei disegni e delle mappe) – il quartiere generale di MART_Libia, un evocativo acronimo che si scioglie in Missione Archeologica Roma Tre, una missione archeologica attiva nel Paese da quasi trent’anni sotto la guida della professoressa Luisa Musso, decano dei nostri archeologi nel paese nord africano.
Fino a sabato erano presenti 4 archeologi e un architetto, impegnati – con il fattivo contributo del MAE, dell’Eni e della Fondazione MedA Onlus – nel recupero e nella salvaguardia della villa romana di Silin e nei progetti di cooperazione “Castello Rosso e Musei della Tripolitania” e LAN – Archivi libici del 900″.
Dopo tre settimane di permanza, anche loro, come il resto degli italiani, hanno lasciato precipitosamente Tripoli, portando nel cuore la speranza di poter tornare al più presto per continuare il proprio delicato lavoro.
Nei primi giorni di aprile, in Tripolitania il tempo è inclemente, stranamente freddo e piovoso, al punto che qualcuno sconsolato commenta: l’inverno, come le milizie, non ha intenzione di lasciare la Libia.