La “lesa maestà” sarebbe un servizio di TG su un’intera programmazione (l’unica, peraltro, nel palinsesto Rai) dedicata all’esito delle elezioni francesi. Sarà perché in Francia ha vinto la sinistra estrema (o, per meglio dire, non ha vinto la destra della Le Pen, che è il vero risultato)? O sarà perché la sinistra italiana, fra fascinazioni dell’epoca Mitterand e Legion d’Honneur appuntate qui e là ai “migliori amici” dell’Eliseo (quasi tutti a sinistra), sono degli inveterati tifosi di un tricolore che piace solo se c’è il blue al posto del verde?
A sentir gli attacchi di questi giorni, sembra quasi che le elezioni d’oltralpe del fine settimana scorso fossero quelle italiane. O che Parigi fosse la capitale d’Italia. O che le due cose insieme fossero il sogno bagnato di tanti.
Quegli stessi che vogliono solo vedere il bicchiere mezzo pieno della frenata all’avanzata del Rassemblement National della Le Pen, senza però dover dare i resti alle devastazioni dei manifestanti di ultrasinistra, alle bandiere dei paesi magrebini che hanno superato in numero quelle francesi, affiancate a quelle palestinesi, agli slogan antisemiti e anti-israeliani gridati dalle folle, ai vandalismi sui monumenti della Ville Lumiere, agli assalti alle case private dei francesi “colpevoli” di supporto alla Le Pen… Moglie piena e botte ubriaca. Vogliono le fanfare trionfali senza dover considerare anche il rovescio della medaglia.
E dunque decidono di prendersela con un festival culturale. Attaccandolo con il solito “stile” dei radical chic: da dentro e da fuori. Un festival che ha raccontato grandi nomi della cultura italiana ammirati in tutto il mondo, come Sergio Leone, attraverso voci di intellettuali di primo piano, come Carlo e Luca Verdone. Un festival che ha avuto come quinta Pomezia, la terra dove è sbarcato Enea fondando l’Occidente (insomma, non esattamente una ZTL qualunque, famosa solo per gli attici degli “amici del popolo”).
Tanto è il livore contro questo festival che perfino chi è di Pomezia e dovrebbe la propria fedeltà prima alla sua città e poi al partito di cui è tesserato, ha ritenuto di doverne sminuire l’importanza storica e culturale pur di poter partecipare al fuoco di fila: meglio qualche “festa di quartiere” (testuale) che un festival che esalti la città di fondazione e i suoi capolavori architettonici, il mito di Enea, i grandi nomi che sono passati su questa terra e che sono riconosciuti in Italia e nel mondo: Leone, Tognazzi, Pennacchi…
È su queste cadute di stile che si chiude il cortocircuito degli ambienti radical chic. Non importa se le bombe cascano anche sulla propria città, sulla propria storia e sul proprio popolo, purché qualche scheggia raggiunga gli avversari politici. Ai radical chic, del resto, del popolo non frega nulla. Che poi è il senso dato alla sequenza iniziale di “Giù la testa!” di Sergio Leone dalla citazione del direttore Edoardo Sylos Labini: frase di Mao e poi Rod Steiger che urina sulle formiche: “Ecco quanto ci importa del popolo! Libretto rosso, Martini con l’olivetta e pioggia dorata in testa al popolo. Poi, in caso, lo consoliamo con qualche “festa di quartiere”. Ma la Cultura, quella con la C maiuscola (anzi la K) deve restare solo Cosa Nostra. Se qualcuno prova a scipparcela dobbiamo distruggerlo, a qualunque costo e senza riguardo di danni collaterali e bugie da raccontare”. Come, per esempio, che sette miseri minuti di servizio su quattro ore e passa di programmazione siano un tentativo di “oscurare” un risultato elettorale.