Ricostruiamo la comunità “rammendando” le nostre periferie

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Il mattino (1909) Fondazione Antonio Mazzotta di Milano Di Umberto Boccioni, Pubblico dominio

Alcuni anni fa il Presidente della Repubblica incaricò Renzo Piano di uno studio sulle periferie urbane. Renzo Piano, che di mestiere fa l’architetto e può vantare fra le sue opere il progetto del Centro Pompidou realizzato Parigi nel 1977, usò un termine apparentemente singolare per ricostituire il tessuto urbano. Parlò di rammendo delle periferie.

Sembrava di primo acchito una parola leggera, non rappresentativa del degrado profondo delle periferie. Ma, dopo un primo senso di smarrimento, si cominciò a pensare che forse il termine non era così inadeguato.

Il primo sconcerto proveniva da una letteratura spesso inconcludente sull’argomento. Una letteratura fumosa, contrassegnata da posizioni ideologiche inconciliabili e da analisi pretenziose che proponevano soluzioni impraticabili. Rammendare, invece, richiama la possibilità di ricucire parti di tessuto urbano non del tutto compromesso, quindi recuperabile. Si può rammendare un abito senza che si noti la differenza nella parte sfilacciata: così dicono le sartorie specializzate e gli artigiani più bravi e così si può fare in parti di città con abilità e rispetto nel luogo. Quindi, si può intendere il rammendo come un intervento che ripristina lo stato precedente senza cambiamenti evidenti.

In questo senso il mantenimento nel tessuto urbano di una propria stratificazione storica senza conflitti con la tradizione appare come una ricostituzione del senso di comunità. La panetteria, il bar, il piccolo supermercato in questo contesto possono avere ancora una ragione di esistere, come luoghi di incontro e di interscambio sociale.

Il breve racconto che segue riprende figure e immagini di varia umanità che potrebbero in qualche modo richiamare la Milano di Testori.

EL GILERA
Al bar arrivava sempre prima il rumore scoppiettante della sua moto, un po’ malandata e malridotta a causa di quei tre cilindri ormai allo stremo. El Gilera era così. Anarcoide e avventuroso. Correva nel quartiere senza curarsi degli accidenti dei passanti che si scansavano per non essere travolti. Quella moto rossa e rumorosa appariva all’improvviso come un cavallo imbizzarrito. Ma El Gilera se ne fregava. Non era cattivo e menefreghista. È che non poteva sopportare quelle proteste, quasi fossero una critica ingiustificata alla sua voglia di esuberanza. Le ragazze lo guardavano, forse lo ammiravano. Quando passava si davano di gomito. El Gilera non era proprio quel che si dice un bellone, un bullo di quartiere, ma attirava l’attenzione per quel suo essere spavaldo e strafottente. Aveva un ciuffo che lo rendeva inconfondibile, che sfumava dal rosso al cenere, un giaccone di pelle nera volutamente consunta con borchie e adesivi davanti e dietro, uno sguardo che sfidava l’indifferenza dei giovani del suo quartiere. Uno sguardo che però non sfuggiva alle ragazze del bar; alcune delle quali se lo mangiavano con gli occhi. Una sera El Gilera volle far vedere di cosa era capace. Fece salire la Teresa sulla moto e a manetta corse per il quartiere. Non si accorse di un passante che attraversava e, per evitarlo, impattò contro un muro. El Gilera era forte. Ma questa volta trovò un ostacolo più forte di lui. La Teresa se la cavò con poche conseguenze, ma El Gilera non ce la fece. Adesso nel quartiere lo ricordano come un piccolo eroe. Adesso sul muro un fiore appassisce davanti a una sua foto un po’ ingiallita.

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Laureato in Architettura svolge la sua attività professionale a Milano dove apre uno studio di progettazione e consulenza nel campo edile e, nel contesto di iniziative parallele, si dedica a progetti di allestimenti e comunicazione a livello internazionale. Redige numerose relazioni di ricerca e approfondimento di temi tecnici e scrive libri per associazioni di categoria. Collabora a giornali e riviste con articoli di architettura, con particolare riferimento alla città e allo sviluppo urbano. Partecipa come opinionista a trasmissioni televisive nell’ambito di iniziative volte a descrivere con spirito critico la città nei suoi molteplici aspetti e funzioni. Attualmente sta preparando un libro sulla città globalizzata, sui rischi della perdita della sua identità in quella che la cultura sostenitrice del processo di assimilazione progressiva chiama “residenza disaggregata”.