Roma città razzista. Contro i romani

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Fotodenuncia dal gruppo FB del Comitato di Quartiere Aurelio-XIII municipio

Immaginate la sorpresa nell’apprendere che il rogo che ieri a Roma ha arso mezzo Monte Mario è partito da un accampamento abusivo. Quattro palazzine evacuate, trasmissioni Rai interrotte, migliaia d’alberi in fumo e decine di migliaia di persone tappate in casa con 35° per non respirare i miasmi.

Roma è da anni in caduta libera per la qualità della vita. Ed è inutile girarci attorno: le cause sono facilmente individuabili in quella che alla sinistra piace chiamare “la diversità”. Ovvero l’afflusso di migliaia e migliaia di stranieri e disadattati e soprattutto la tolleranza verso i loro stili di vita a cui viene concessa ogni sorta di franchigia. Dal diritto a “campeggiare” nei parchi pubblici a quello di condurre negozietti che vendono alcolici a tutte le ore del giorno e della notte, divenendo centri d’aggregazione per ogni forma di malavita. Da una dozzina d’anni, poi, la retorica della “carità” che viene da Oltretevere ha trasformato i dintorni di San Pietro in un vero e proprio accampamento abusivo di disperati, una bidonville straziante dove si può essere abbordati da individui all’ultimo stadio del disagio esistenziale disposti a prostituirsi per pochi spiccioli.

Le scene dalle metropolitane romane o dalla centralissima Stazione Termini hanno fatto il giro del mondo: turisti e romani derubati, minacciati, aggrediti. Quando qualcuno ha provato a ribellarsi, è stato trattato da “squadrista” e “fascista”. Stai a vedere che il problema è chi non si fa rapinare in silenzio (cosa che farebbe quasi ridere, se in certi paesi “più avanzati di noi”, tipo l’ultra-wokeista Canada, non ci fossero già ordinanze della polizia di lasciare le chiavi in auto, così i ladri possono evitare di “diventare più violenti” se contrariati).

Quello di Monte Mario è solo l’ultimo episodio di incendio causato dai campi rom abusivi. Due settimane fa ha preso fuoco la borgata di Casal Lumbroso, con tre agenti di polizia gravemente intossicati nell’adempimento del loro dovere; incerte le cause dell’incendio, ma avviene in una zona dove insiste un campo rom, e che già due mesi fa, sempre nei medesimi paraggi, aveva preso fuoco di nuovo. Rogo, quello di maggio, a poche ore di distanza da un altro, a Santa Maria della Pietà, sempre a ridosso di un accampamento di “nomadi”.

E non c’è area verde romana che non rischi. La Pineta Sacchetti, oltre 50 ettari di verde a nordovest del Vaticano, viene praticamente incendiata ogni anno. Il rogo peggiore, nel 2016, arrivò sotto le finestre delle abitazioni e fu probabilmente innescato dall’abitudine dei nomadi di bruciare i rifiuti per separare le parti metalliche dalla plastica. Del resto la collina che sovrasta Valle Aurelia (di fronte al Monte Ciocci, quello famoso di “Brutti, sporchi e cattivi”, tornato a quei… fasti dopo 50 anni) è costellato di piccole macchie di bruciato piene di plastiche squagliate.

E nei parcheggi antistanti la Pineta, che ora il Comune vorrebbe “riqualificare” (leggi: togliere i posti auto per sostituirli con “playgroud”) campeggiano da quarant’anni alcune famiglie di zingari italianissimi che – secondo la vox populi – stanno là “ai domiciliari”. Ricevono periodiche visite di prammatica dai carabinieri, ma per il resto sono liberissimi di condurre la loro vita fra accattonaggio e rumorose sceneggiate in casertano stretto. Non li disturba nessuno, nemmeno la convivenza con un gruppo di balcanici, questi specializzati nel rovistare nei cassonetti. La conseguenza principale è che l’intero quadrante è ridotto a una latrina a cielo aperto, con odori insopportabili, aree trasformate in gabinetto e cittadini costretti a rinunciare al parco giochi per i bambini, chiuso dal Comune per manifesta incapacità di impedire che diventi luogo di bivacco per queste comunità.

Alle quali si affiancano poi i “nuovi italiani”. Giovani spacciatori nordafricani che esercitano la loro attività con pitbull da guardia (pericolosamente senza guinzaglio) alla luce del giorno (qualcuno l’ha pure scritto sui muri). Impossibile non notarli: durante il regime covid nel parco c’erano solo loro, col pitbull e il viavai di “clienti”. Avvisate le forze dell’ordine – che nel frattempo erano impegnate contro il gioco d’azzardo delle comunità filippine e sudamericane – hanno ringraziato “le importantissime segnalazioni dei cittadini”, apparentemente cadendo dalle nuvole. Ma gli spacciatori sono sempre là, con i loro cani feroci e la merce.

Bellissima, questa “diversità”. Basti ricordare che Osman Hussain, uno degli attentatori di Londra nel 2005, è stato arrestato a Roma dove aveva trovato ricetto dal fratello, tenutario di internet point nella Capitale. O che le pandillas sudamericane (quelle che in Messico usano le motoseghe per le loro esecuzioni) dopo aver preso possesso dei carrugi di Genova o di interi quartieri milanesi, ora mostrano impunemente le loro facce tatuate in pieno sole, davanti ai minimarket “etnici” di Circonvallazione Cornelia, uno dei più grandi capolinea di scambio della Capitale, che hanno preso il posto dei negozi italiani che un tempo ravvivavano la zona.

Questo è dunque il prezzo della “diversità”. I romani sopportano pazienti ma soprattutto rassegnati. Intimoriti, a volte, dalle urla isteriche di chi li aggredisce come “razzisti” se provano a protestare. Dei benaltristi per i quali i veri problemi della Capitale sono la “poca inclusività” a causa dello “scarso numero” di iniziative arcobaleno, oppure il “cambiamento climatico”. Ma come? Pensi al furto nel tuo appartamento, all’auto vandalizzata da un immigrato fuori di testa o alle nuvole di fumo nero causate dal campo rom quando al Polo Nord si sciolgono i ghiacci? La soluzione è sempre una e una sola: più ZTL per tutti. E più diversità, beninteso.

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