Lontano dalle attenzioni del grande pubblico, lo è sicuramente Peer Gynt, dramma teatrale in cinque atti del norvegese Henrik Ibsen. Già alla sua pubblicazione, nel 1867, non venne accolto con entusiasmo. Sotto l’opera si cela infatti una patina molto sottile, difficilmente accessibile, introspettiva, filosofica, spirituale. Che ha molto da dire anche e soprattutto ai giorni nostri. Il tema principale, la ragione della sua stessa incomprensione, risiede senza dubbio nella ricerca di se stessi.
Lo si vede già nel pieno del secondo atto, quando, battuta la testa e perduta coscienza, il protagonista, ossia un giovane sognatore di nome Peer Gynt, immagina di trovarsi davanti al re della montagna, chiamato “vecchio di Dovre”. A un certo punto questo dà al giovane un monito, che poi sarà centrale nell’opera: “là fuori, sotto i raggi del sole, gli uomini si dicono l’un l’altro: “sii te stesso”. Invece qua fra i troll, il motto è: “ti basti essere come sei” … Figliolo, è la frase vigorosa e incisiva che deve essere la tua divisa”. Queste parole per il protagonista saranno una bussola: lui deve essere se stesso, non un troll e se lo ripeterà sempre.
Il tema poi si ripresenta di pari passo con la vita di Peer, che abbandona la moglie Solveig e trova fortuna all’estero, facendo ogni lavoro possibile, commerciando schiavi in Carolina e statue in Cina. Cosa che lo farà sempre pensare, anche nei suoi viaggi esotici, tra le albe marocchine e i tramonti di San Francisco, di essere sempre stato se stesso, essendosi goduto la vita e non essendosi mai piegato a nessuno. Questo allegorico cammino dell’“Io” ha il suo compimento nel quinto atto.
Ormai al termine della sua vita, Peer Gynt torna in Norvegia. Passeggiando per i luoghi della sua giovinezza, viene raggiunto da una strana figura, “il fonditore di bottoni”. Costui vuole fondere la sua anima assieme ad altre, in quanto gli dice che non è mai stato sé stesso; di conseguenza, né uomo probo né grande peccatore. Subito dopo ecco un’altra apparizione: il vecchio di Dovre, ora diventato mendicante, gli rivela che in realtà non è mai stato sé stesso, bensì si è comportato sempre come un vero troll: gli è bastato essere com’era.
Ecco il punto saliente della storia, il culmine del dramma psicologico di Ibsen. Peer ha sempre pensato e si è sempre vantato di essere se stesso, quando era in realtà solo un troll. I successi della sua vita passata a peregrinare non sono in realtà frutto del suo animo più profondo, bensì di un istinto animale.
Ma alla fine ecco la salvezza, inaspettata. Solveig, invecchiata come lui, non ha mai smesso di aspettarlo e dice che in verità è sempre stato sé stesso, nell’amore che lei provava nei suoi confronti. La sua identità più profonda era dunque rinchiusa nel più nobile dei sentimenti: l’amore. Questa donna così candida, quasi dantesca, che lui aveva abbandonato per cercare ricchezze pensando di realizzarsi, è la sua salvezza. Una salvezza che viene certamente dall’alto. E il fonditore di bottoni se ne va.
E’ una storia certamente visionaria, che lascia vari punti irrisolti. Certo è però che, se si guarda tra le linee, il messaggio dato è molto forte. Ed è ancor più certa la sua attualità, in questo mondo globalizzato, materialista e disorientato, in cui la ricerca di se stessi è per forza di cose un tema importante. Ebbene anche questa piccola opera, di cui il nostro Paese ha visto la prima rappresentazione solo 50 anni dopo l’uscita, dal piccolo contesto scandinavo ci ricorda come essere se stessi e accontentarsi della propria condizione egoista siano due cose molto diverse. Ci ricorda, nell’epoca degli eroi di Wall Street, della meritocrazia del petrolio e dell’edonismo onnipresente, che essere se stessi implica un innalzamento spirituale, e non un decadimento. Un invito in fondo a riscoprire la vita vera, a dispetto di quella da palcoscenico tipica di questi tempi.