Hitler e Stalin non avevano nessuno sopra loro, Mussolini uno sì..

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La seduta del Gran consiglio del 9 maggio 1936, in cui fu proclamato l'Impero - fotografia pubblicata in territorio italiano -pubblico dominio

Il dibattito sul Fascismo è ancora ricco e vivo, seppur obnubilato dalle opposte idee politiche. I 77 anni intercorsi dalla caduta del regime e i 75 dalla fine della guerra, civile e mondiale, in Italia non hanno suturato ancora la profonda ferita che quell’esperienza cagionò. L’analisi storica non si è mai elevata e lo spessore è ancora da derby a colpi di slogan del tipo: “I treni arrivavano in orario” vs “C’era la dittatura”.

Proprio quest’ultima affermazione sarebbe interessante da indagare, con gli occhi neutri e asettici di uno storico ovviamente, evitando la commistione ideologica che tarpa le ali a qualsiasi ragionamento obiettivo.

Una premessa però è doveroso farla, proprio perché storicamente oggettiva: il Fascismo governò l’Italia in maniera autoritaria, liberticida, represse duramente ogni oppositore e accentrò in un partito-Stato tutti i poteri disponibili. Tranne uno: quello del Re. Per questo motivo rappresentò un’anomalia nel panorama delle dittature.

Hitler, Franco, Stalin, Mao, non ebbero mai nessuno sopra di loro, eccetto i pochissimi mesi di coabitazione del Fuhrer con Hindenburg. Mussolini sì e al momento opportuno fu rimosso dall’unica autorità cui dovette subordinarsi, almeno de iure. Per dimettere il Duce dalla guida dell’esecutivo non servì alcun colpo di stato o di cannone. Bastò il voto contrario dell’unico organo di controllo e contrappeso, il Gran Consiglio del Fascismo, parte dello stesso PNF e quindi del Regno d’Italia, per consentire a Vittorio Emanuele III di esercitare le proprie, intatte, prerogative e costringere il suo presidente del Consiglio alla resa.

Quel fatidico 25 luglio 1943 in cui il regime ventennale cadde sotto il peso dell’approvazione di un ordine del giorno, rappresentò il momento più democratico dell’era fascista, forse l’unico. Il documento presentato da Dino Grandi e passato a maggioranza, con il voto favorevole perfino del genero del Duce, Galeazzo Ciano, non chiedeva nulla di straordinario: solamente il ripristino dell’articolo 5 dello Statuto Albertino, che conferiva alla monarchia il comando delle Forze Armate. Comando che era stato da anni delegato in favore di Mussolini.

Tre anni disastrosi di guerra avevano appannato irrimediabilmente la sua immagine. L’uomo che sette anni prima, annunciando la vittoria nella guerra di Etiopia, aveva raggiunto il massimo del proprio consenso, assistette alla sua caduta spento, tormentato da dolori allo stomaco, quasi svogliato e incapace di reagire, pur sapendo perfettamente da giorni cosa si stava ordendo contro di lui ma evidentemente non credendoci. Fatto sta che le basi legali e costituzionali per la sua rimozione erano rimaste intatte, erano sopravvissute a un ventennio di leggi speciali, di colpi di mano e di cesarismo esasperato.

La verità storica, seppur scomoda, è che fino a quella sciagurata entrata in guerra, nessuno sentì la necessità, pur potendo farlo, della fine del Fascismo. Certamente il consenso era “drogato” da un macroscopico apparato di propaganda, che non consentiva alla popolazione di conoscere la realtà, le voci contrarie erano state da tempo strozzate nella culla. Ma chi agì con irrisoria facilità quel 25 luglio 1943 non aveva sentito, per convinzione o mero opportunismo, la necessità di agire preventivamente. Sarebbe stato certamente più complesso abbatterlo all’acme del successo ma comunque possibile e perfino democratico.

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