Quell’Italia eroica di cui ci vergognamo

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Ho preso una delle tante ricerche sul brand Italia. Cosa si intende per italianità nel mondo? Le specifiche del marchio sono sensoriali – arte, cultura, cibo, moda, automobili – poi sono emotive – vacanze, bel tempo, buon cibo, bellezza, amicizie – e infine sono razionali  – linguaggio e storia.

Insomma, da un punto di vista di percezione da parte del resto del mondo, l’italianità è una cosa serissima. Il problema è come la si racconta. E si dirà: perché questa affermazione? Che problema c’è? Lo spiego subito: il racconto dell’italianità è spesso monco, orbo e parziale, volutamente parziale. Perché quelle specifiche di brand che prima ho riportato possono essere declinate narrativamente in modi diversi: nel modo debole e di basso marketing, ovvero quello attuale, o in un modo forte e di marketing identitario, ovvero nel modo in cui le piattaforme mediali e crossmediali dovrebbero essere inondate di materiali immaginari sulla nazione con la più alta densità percentuale di meraviglie naturali e artistiche della storia (ripetiamo: della storia, non di oggi). In altre parole, nonostante ci si sforzi anche con ottimi risultati di esportare in termini di creatività editoriale – cinema, fiction, design, moda e via dicendo – il concetto di italianità e lo si rende ogni tanto un marchio di prestigio, persino affascinante, i nostri antichi e ormai quasi atavici sensi di colpa spesso spingono l’industria culturale mainstream a espungere, quasi con vergogna, la dimensione dell’eroismo dalla narrazione dell’Italia.

Lo sappiamo che a Hollywood gli americani sono specializzati nella costruzione di supereroi – anche se ultimamente sempre più complessati, ma il politicamente corretto non fa prigionieri fra i superuomini – e soprattutto nella edificazione continua di miti fondanti nazionali che rafforzano il senso di appartenenza agli Stati Uniti e, soprattutto, spiegano al mondo quant’è bello l’orgoglio nazionale yankee, e va bene, però qualcuno dovrebbe ancora spiegarci perché, sia per i centocinquant’anni dell’Unità italiana, sia per il centenario della Vittoria nella Grande Guerra, non sia stato pensato un solo prodotto che mettesse al centro la celebrazione eroica (lo ripeto) dell’unificazione nazionale e ancora di più della Nazione costruita dentro le trincee, le sue storie, i suoi uomini, i suoi eroi, senza per forza dover apporre il francobollo buonista. Non un prodotto, nemmeno uno, che possa essere definito patriottico nel senso vivo e vivido del termine. Attendiamo ora di vedere cosa e come verrà pensato il prossimo anno su Gabriele D’Annunzio. Noi non osiamo – ripeto, per paure ancestrali, egemonie culturali e politiche – raccontare l’Italia eroica. Ci accontentiamo, perché non fa male a nessuno, di spiegare, quando va bene, quanto l’Italia sia bellissima, piena di saperi e sapori, ma nel grande teatro dei conflitti comunicativi manca ancora – e non si vede all’orizzonte – una svolta narrativa che finalmente reintroduca, accanto al santo concetto di bellezza, anche quello di grandezza nel racconto dell’italianità. Sarebbe così semplice, poi.