Che fine ha fatto il mecenatismo?

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Umberto Boccioni, La città che sale, 1910

Il “secolo cadetto” il populismo e la “boria dei tecnocrati”

Partiamo con una attenuante generica. Quella che il nostro secolo si è trovata sul groppone non è di certo un’eredità di poco conto, se pensiamo a ciò che il Novecento ha rappresentato – nel bene e nel male – in termini di portata realizzativa, sia ideologica che pratica, nelle arti come in politica.

Ma è difficile negare quanto questo primo scorcio di secolo, pur ponendosi in soluzione di continuità, in quanto a scoperte, invenzioni, nuove forme comunicative…e catastrofi, con ciò che l’ha preceduto, paia intellettualmente meno dinamico, meno propositivo, diremmo quasi “rassegnato”.

Lyotard ci informò: “il postmoderno è allergico alle metanarrazioni”. Laddove per “metanarrazioni” non devono intendersi solo i “racconti teleologici” della realtà e della storia ispirati da una metafisica o dalla teologia, ma le stesse “narrazioni” laiche del reale che insufflarono il moderno: umanesimo, illuminismo, liberalismo, idealismo, socialismo, e qualsiasi idea che innalzandosi al di sopra della mera prosaicità quotidiana pretenda dargli forma.

Così, tramontato dopo il mito della “città del sole” anche quello della “città che sale” caro ai futuristi che, pur nel loro per molti versi incosciente culto del progresso, immaginavano una modernizzazione della società secondo linee guida ben radicate nella tradizione dell’umanesimo culturale di marca italiana, noi ci ritroviamo oggi figure di intellettuali ed artisti impossibilitati ad inserire le proprie teorie ed espressioni artistiche non tanto nell’alveo di un astratto impegno civile da engagè, quanto nel solco di una civiltà capace di rinnovarsi senza snaturarsi nel corso degli anni e dei secoli, con le sue peculiari “forme primarie” (archetipi) a base dei costumi, della letteratura, delle arti, dell’architettura, valori ed esempi di vita.

Il maggiore dei motivi è presto detto: consiste nel “livellamento verso il basso” ormai da tempo registratosi nel dominio politico: provateci voi a dedicare un poema all’acume di Giggino Di Maio! E, soprattutto, dove trovare vere figure di mecenati – per intenderci – alla maniera di un Pandolfo Malatesta o di un Federico da Montefeltro, oggigiorno?

Il politico, ormai da tempo, cerca di legittimarsi stando a detta di due padroni, il gusto popolare – cui ammicca – e l’interesse del tecnocrate – da cui dipende –, presentandosi così nelle due versioni di “populista” e di “mainstreamer”, e dunque o nelle vesti di ruspante Masaniello erettosi a telematico aruspice e tribuno-ventriloquo dei visceri (spesso sconvolti) del popolo “basso”, o in quelle di specialista o sacerdote dello specialismo, ossequioso dei tempi, con annessa leziosa boria (versione contemporanea della vichiana “boria dei dotti”) e cazzimma da primo della classe.

A venir meno, rebus sic stantibus, sono proprio le figure di reali condottieri, di coloro che, lungi dall’essere asserviti ad interessi anti-nazionali ma al contempo capaci di superare i facili e sterili entusiasmi del populismo, sappiano rinfocolare “anagogicamente” l’ormai sopito genio della civiltà italiana, con la preparazione, con il gusto, con i mezzi e la munificenza, con l’esempio.

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