“Sui carrozzoni del post Grande Reset non c’è posto per…”

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Quello che più colpisce di Renato Carpaneto, in arte Mercy, storico leader e front-man degli IANVA, è l’apparente contraddizione tra il suo aspetto austero, talvolta ieratico e la sua affabile loquacità, resa ancora più familiare da quella cadenza genovese che ancora magicamente riaffiora tra le pieghe del suo linguaggio: preciso, tagliente, evocativo, mai banale.

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Questa intervista si limita a poche ma impegnative domande, proprio per consentire a Renato di potersi esprimere al meglio, lontano dalle solite limitazioni di spazio e di tempo.

IANVA sono l’unica band italiana ad aver cercato, in modo coerente e costante, di scavare sul passato più o meno recente, alla ricerca di valori, radici che condivisi costituiscono la nostra Identità. Ma credo l’operazione più difficile e contro corrente sia stata quella di proporre argomenti, storie, personaggi volontariamente emarginati dalla Cultura istituzionale per oltre 70 anni.

Credi che in questi ultimi anni sia cambiato qualcosa rispetto al recente passato? Possiamo considerare terminata la stagione delle “egemonie culturali”?

Finita dici? A me pare invece evidente l’esatto contrario. E cioè che il peggio debba ancora venire. Vedi forse sorgere un establishment culturale alternativo a quello già esistente? Non fraintendetemi: sono profondamente persuaso che gli intelletti migliori, le menti più originali, brillanti, libere, coraggiose, argute, corrosive e, in fondo, moralmente specchiate stiano ormai tutte, dicasi tutte, all’opposizione. Il che, come dato oggettivo, dovrebbe sconfortare persino noi visto che le realtà totalizzanti non sono mai un buon affare per nessuno.

Ma anche se che nelle stanze del pensiero mainstream si respira l’aria stantia che grava negli spazi angusti e sigillati, affollati di organismi che vi hanno messo radici e fatto la muffa, da là non trapela il minimo accenno di autocritica. Basta assistere ad un qualsiasi talk show di area per così dire progressista: il conformismo culturale, dialettico, linguistico e finanche fisiognomico è di una densità tale da apparire quasi solida, misurabile.

Il problema è che questa gente è egemone non perché manchino competitori da valore, ma perché costituisce una componente vitale dell’ingranaggio sistemico. E finché l’ingranaggio resta integro e funzionante, risulta conseguentemente efficiente nel preservare ogni suo singolo componente. Sperare in una loro autolimitazione, o almeno che essi riconoscano il semplice diritto ad esistere di visioni della realtà differenti dalle loro implica non aver compreso affatto la portata storica della sovversione in atto. Sovversione che, ben lungi dal limitarsi alla sola sfera politica, ha finito per investire anche le arti, il costume, il linguaggio, il diritto, la storia, la biologia…

Ora: non credo serva chissà quale acume per capire che un programma di tale vastità e pervasività necessiti di avvalersi di strutture mentali intrinsecamente totalitarie. Quella del pensiero politicamente corretto è ormai a tutti gli effetti un’ideologia assolutistica che, oltretutto, pare pervasa ogni giorno di più da una sorta di furia ossessa che si traduce in compulsione a setacciare, scovare, inquisire, annientare.

Infatti vedete bene che si parla ormai apertamente, e con un tenero trasporto che dovrebbe dare i brividi a ogni persona sana di mente, di “cultura della cancellazione”. Con noi, la nostra storia, il nostro retaggio, le nostre arti, la nostra cultura, i nostri paesaggi nella parte dei candidati a subire la suddetta.

IANVA nacque semplicemente perché già quasi due decenni fa avevo intuito che è lì che saremmo finiti. Voleva essere insieme una celebrazione postuma ed una sirena d’allarme. Quando senti arrivare l’alluvione cerchi al contempo di dare l’allarme e di stipare il maggior numero possibile di oggetti importanti sui ripiani più alti, sperando che la valanga di fango non arrivi fin là sopra. Una beata ingenuità anche questa, col senno del poi. Nata, credo, dal troppo affetto per la propria gente: la si vede di gran lunga migliore di quella che evidentemente è.

Più vi ascolto e più mi struggo al pensiero che siete un gruppo musicale di nicchia. Certo non mi aspettavo di trovarvi al Festival di San Remo, ma ritengo meritereste almeno il successo mediatico di altre band che in passato hanno giocato anche un ruolo di rottura rispetto all’establishment, parlo di gruppi come CSI e Disciplinatha. Come te lo spieghi e quanto questi due gruppi sono stati importanti per voi?

Mi lusinga questo tuo struggimento, ma mi permetto di suggerirti di indirizzarlo verso oggetti un poco più vasti e perenni. Noi, dopotutto, siamo arrivati a giochi fatti, quando ormai la “normalizzazione” era già ben avviata e quindi la nostra marginalità già messa in conto.

È pur vero che per un breve periodo era parso a tutti che fossimo prossimi “al salto”, come si usa dire, ma noi abbiamo sempre avuto ben chiaro come sarebbe finita. Visto dal nostro osservatorio era tutto un serrarsi di tagliole, un abbassarsi di barre, un levarsi di paratie stagne. Non racconto per carità di patria e perché in fondo ci tengo a restare un galantuomo d’altri tempi le figure miserrime, da pavidi passacarte, in cui sono incorsi con noi certuni operatori del settore.

Ma è anche vero che, com’è precipuo delle epoche meschine e feroci, i più accaniti ed efficienti diffamatori e sabotatori sono stati coloro che, almeno in teoria, avrebbero dovuto stare dalla nostra parte. So di che parlo: chiedi anche dalle parti delle tue conoscenze e avrai di che sorprenderti.

Detto ciò, anche a costo di guadagnarmi degli ulteriori antipatizzanti, vorrei chiarire che non ho mai considerato i CSI un gruppo di rottura. L’affermazione di cui hanno goduto viaggiava su binari che non erano meno mainstream dello stesso Festival di Sanremo. Solo che, arrivando dagli anni ’80 ed essendo stata quell’epoca caratterizzata da una libertà espressiva e da un pluralismo stilistico che oggi non sono neppure più lontanamente concepibili, essi hanno potuto profittare di una congiuntura purtroppo irripetibile. Era infatti pacifico che anche ad una platea giovanile “alternativa”, numericamente vasta perché percentualmente estratta da una mandata generazionale mai più così copiosa, si provvedesse una corrispondente “normalità”.

Oggi, dato che gli artisti stanno quasi tutti con le pezze al culo, si stenta a credere che pure gli “strani”, gli sballati, i post-punk, i darkettoni, i metallari e i garage-rockers potessero costituire un target in grado di generare fatturato, ma per un po’ è stato così. Fatto salvo quest’ultimo, ci si era pure preoccupati di mettere in sicurezza il sostrato politico e culturale, invadendo e permeando a fondo con le consuete istanze di marxismo discount anche contesti come il punk che, almeno in ordine alle aspirazioni iniziali, nasceva per essere altro. E, nota bene, per altro non s’intende l’opposto, ma proprio ALTRO.

Ora: cosa poteva esserci di più “osservante” rispetto a questa direttiva di quanto promosso dal Consorzio Produttori Indipendenti? Non cessa mai di sconcertarmi come degli evidentissimi fiancheggiatori di quel sistema passino ancor oggi, nella prospettiva storica, per “oppositori”.

E meno male che Ferretti, da un dato momento in avanti, ha pensato bene di moltiplicare dei segnali di chiarezza rispetto a ciò che, probabilmente, ha sempre vissuto come una forzatura essendo l’uomo, palesemente, un animo tradizionale, per non dire arcaico.

Discorso differente per i Disciplinatha che, sotto l’egida della Attack Punk Records. di Helena Velena, struttura quest’ultima autenticamente dissidente a 360°, licenziarono un debutto destabilizzante a livelli inauditi per l’Italia di allora. In particolare poi per gli ambiti “alternativi”, adagiati sulle paciose certezze della pax “progressista” a sua volta blindata dall’assoluto monopolio delle varie ARCI.

Il fatto che il buon Ferretti, all’epoca investito di un’autorevolezza seconda solo a quella di Papa Woytila, si fosse invaghito di loro, o meglio del loro “spirito”, “reagente” piuttosto che reazionario, è stato da un lato la loro fortuna, nonché il passpartout per accedere a quelle stesse platee che li avevano immediatamente boicottati, ma anche, se vogliamo, l’antidoto alla tossina, formidabile ed entusiasmante che li aveva fatti emergere da un giorno all’altro.

Ecco: noi siamo stati uno shock alla Disciplinatha, ma giunto in un tempo ideologicamente assai più feroce e totalitario ed enormemente meglio attrezzato a tacitare ogni dissidenza. E senza neppure il bacio in fronte, purificatore come l’elargizione di un’indulgenza medievale, di Ferretti.

Ma è proprio vero che il tempo è galantuomo, visto che l’attuale incarnazione dei Disciplinatha, i Dish Is Nein, si sono come rimessi miracolosamente in asse con lo spirito delle loro origini e, paradossalmente, appaiono sul pezzo della contemporaneità assai più di certi loro ex compagni di viaggio rimasti attivi tutti questi anni. Sarò immodesto, ma credo che un’inezia sia pure merito mio.

Ferretti, dal suo eremo, fa periodicamente spiovere qualche sempre salutare doccia gelata sugli antichi discepoli i quali non si capacitano di una metamorfosi che, in realtà, non è mai stata tale.

Peggio invece per altri ex imbarcati sul carrozzone Consorzio, che non si capacitano ancora di come possa essere tutto finito e non fanno che frignare e sgomitare senza capire di essere incorsi in una sorta di obsolescenza programmata. Succede quando si esercitano certi mestieri come il gazzettiere o la cortigiana.

È storia recentissima la profferta di fedeltà e la dichiarazione di un’adesione ancora più incondizionata, ancora più acritica, ancora più intransigentemente ortodossa con debito scorrimento di tutti i santini del caso, al Pensiero Unico fatta via stampa da almeno un paio di protagonisti di quella stagione. Le vecchie volpi devono aver capito che sui carrozzoni prossimi venturi, post Grande Reset, non è previsto un posto per loro. E allora cercano di accreditarsi. In pratica mendicano di non essere lasciati a terra. Artisti da due soldi e uomini minuscoli.

Ianva. Villa Bombrini, Genova. Ph Emanuela Zini

Parti per un lungo viaggio, puoi portare con te solo 3 libri e forse non potrai leggere altro per tutto il resto della vita: cosa scegli?

Premetto che quando mi fanno domande simili le prendo sempre terribilmente sul serio. Ossia alla lettera. E dunque debbo in qualche modo spiegare i criteri della scelta. Intanto: se non potrò leggere altro per sempre suppongo che questi libri mi debbano anche periodicamente intrattenere. E farmi viaggiare a ritroso con la memoria, a tempi più felici. Farmi rivivere incanti perduti per sempre. E quindi, per quanto centrali possano essere stati, scarto tutti i testi di saggistica, di filosofia, di politica: tutte letture che, è vero, formano l’uomo, ma mi auguro altresì che il loro prodotto finale, ossia me stesso, resti ancora a lungo presente a sé.

Scelgo invece un romanzo, una quintessenza del Decadentismo, “Là Bas” di Huysmans, che non solo decenni or son mi fece avvertire con una nitidezza magica ciò a cui tendevo, la configurazione umana alla quale avrei tenuto a somigliare, ma è stato anche alla base del primissimo segnale d’intesa che scambiai con quella sconosciuta che poi divenne e che ancor oggi è mia moglie.

In secondo luogo, porto una raccolta poetica perché, per chiunque scriva canzoni, la parola è anche musica e ben poche musiche suonano più perfette e sublimi dell’”Alcyone” di d’Annunzio. E pazienza se dovrò rinunziare al d’Annunzio prosatore che pure mi ha sempre soccorso, anche nei momenti peggiori della vita.

Da ultimo trovo giusto conferire pari dignità anche alla letteratura di genere. Specie quando si tratta, semplicemente, di uno dei più magistrali gialli di sempre. Ed è italiano: “A Che Punto È La Notte” di Fruttero e Lucentini. Ho scelto tre cose che, semplicemente, non mi stancheranno mai.

C’è “La canzone”, quella che ascolti e dici ” di questa avrei voluto essere io l’autore e l’interprete”

Uguale come sopra. Preciso che la scelta potrebbe cadere tra centinaia di titoli internazionali e trasversali a vari generi e stili. Ma siccome scrivo in Italiano suppongo sia coerente indicare l’oggetto della mia “invidia” autoriale tra le canzoni italiane. Solo che contravvengo alla tua indicazione e ne indico più d’una. Anche perché abbiamo impiegato tutto lo spazio dedicato alla musica a parlare del Consorzio mentre io vorrei centrare qualche titolo davvero “influente” per l’ispirazione iniziale di IANVA.

Le canzoni sono:
“La Domenica Delle Salme” di Fabrizio De André
“L’Ombra Della Luce” di Franco Battiato
“Hotel Plaza” di Faust’ò
“Vecchia Europa” di Enrico Ruggeri
“Io E Gli Altri” di Giorgio Gaber.

Ho omesso Battisti solo perché non mi è riuscito di decidermi tra qualcosa del periodo Mogol e qualcosa del periodo Panella.

A proposito di identità e radici, come vivi e vivete il rapporto con la “vostra” Genova? Madre? matrigna? siete un caso esemplare di “nessuno è profeta in patria”?

Guarda: non è un segreto che la scelta stessa della nostra ragione sociale nasceva con un esplicito intento polemico, senza dissimulare oltretutto un tocco di sarcasmo. Come dire: l’unico sentimento identitario che la mia città mi suscita si alimenta d’una narrazione epica riguardante vicende datate diversi secoli.

In verità arrivavo, e dico arrivavo perché l’orticaria che questa città ha sempre manifestato verso i miei progetti riguarda esclusivamente la mia persona e solo di riflesso e più limitatamente i miei collaboratori, da anni e anni di tenace ostracismo e, almeno in quel caso, senza neppure il pretesto della causale politica o presunta tale.

Il punto è che non parlo volentieri di certe vicende perché anche il solo e semplice atto di raccontare la verità può assumere, in determinati contesti, una veste di vittimismo che proprio non mi va d’indossare. Odio apparire una vittima e sono sempre stato persuaso che una corretta postura nel vivere passi attraverso il rifiuto categorico di farsi vittimizzare.

Detto ciò mi sento artisticamente debitore della storica scuola cantautorale, ho vissuto intensamente gli anni delle avanguardie musicali alternative e, da passabile storico dilettante, mi riesce d’inquadrare determinate peculiarità locali che si esplicano nella musica e nelle arti nell’ottica di un retaggio assai più antico e, a suo modo, nobile di quanto si possa comunemente credere.

Chiarito ciò, ci sono al contrario una serie di mitologie sulle quali si è avvinghiata per decenni fino alla cancrena la cosiddetta Genova Alternativa che non solo non m’hanno mai né emozionato, né tanto meno influenzato, ma non ho mai fatto mistero di trovarle deteriori, puerili e fruste fin oltre il ridicolo. Dovrei essere stato abbastanza chiaro.

Ultima domanda, scontata ma necessaria: prossimo album? Sarà un concept?

Ci puoi scommettere.

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