Era il 14 ottobre di due anni fa quando due ragazzine arruolate da una qualche sigla di fanatici ecoansiosi inaugurarono la moda di imbrattare opere d’arte nei musei per protestare contro il “cambiamento climatico”. Le due contestatrici – che un’ampia analisi dei loro social dimostrò essere tutt’altro che delle Giovanne d’Arco dell’ecologia bensì normalissime ragazzine modaiole in cerca del warholiano quarto d’ora di notorietà – lanciarono della zuppa di pomodoro contro il vetro di uno dei “Girasoli” di Vincent Van Gogh alla National Gallery, a beneficio di decine di videocamere e smartphone pronti a riprendere il gesto anziché intervenire per difendere il capolavoro del pittore olandese.
Il fattaccio fortunatamente non provocò danni alla tela, ma solo alla cornice. Con astuta mossa mediatica, infatti, mandanti e organizzatori avevano scelto un’opera protetta da un vetro: tanto clamore, minimo anno. Tuttavia, come profeticamente suggerito da Enrico Petrucci, lo spin era avviato e oramai sarebbe stata solo questione di tempo e qualche opera priva di protezione presto o tardi sarebbe stata irrimediabilmente rovinata da qualche drone umano, emulatore delle due pioniere dell’ecovandalismo più sprovveduto.
Così infatti è stato per il monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, che circa sei mesi dopo è stato lordato da un gruppo di esagitati con vernice… lavabile. Peccato che i vandali, privi evidentemente di qualsiasi nozione riguardante il lavoro manuale, hanno pensato che il “lavabile” fosse riferito al fatto che sarebbe stato facile rimuoverla, invece del suo esatto contrario: essere resistente all’acqua. Così sono occorsi ben 29 mila euro di denari pubblici per cercare di restaurare il monumento. La scusa è che il gesto doveva servire ancora una volta a “sensibilizzare” sui danni del “cambiamento climatico”.
La realtà è la matrice wokeista alla base di queste balordaggini: a inaugurare il vandalismo a scopo propagandistico, infatti, non sono le due social justice warrior inglesi, ma delle loro degne antenate, sempre alla National Gallery, 110 anni fa. L’episodio è alquanto noto: il 10 marzo 1914 una suffragetta esagitata, tal Mary Richardson, entrò alla galleria nazionale di Londra con una lama e inferse una mezza dozzina di squarci alla Venere Rokeby, capolavoro dipinto da Velasquez nel 1648. Lo scopo della fanatica femminista era protestare contro l’arresto di Emmeline Pankhurst, leader del movimento per il suffragio femminile che già da tempo operava con metodi terroristici (incendi, vandalismi, interruzione di linee telefoniche…).



Ma è la vera motivazione dietro il gesto della Richardson che consente di dipingere un quadro chiaro di questi individui e del disagio esistenziale che è alla base dell’adesione a queste ideologie violente, irrazionali e pericolose: dopo gli slogan strillati contro l’arresto della Pankhurst, la vandala confessò candidamente che in realtà non gradiva «il modo in cui gli uomini guardavano l’opera a bocca spalancata tutto il giorno». Tutti gli alati idealismi d’incanto sbiadiscono di fronte a questa verità: l’odio per l’arte, il bello, l’invidia e il complesso di inferiorità sono la vera molla che spinge esibizionisti, attention whore e mitomani a compiere gesti gravi e spesso irreparabili.
Con una differenza: il movimento delle suffragette, per quanto violento, era largamente spontaneo. Al contrario, dietro la galassia di sigle “ecologiste” che reclutano e aizzano i loro accoliti contro le opere d’arte ci sono organizzazioni strutturate, con finanziamenti milionari da parte di oligarchi (che in occidente si preferisce però chiamare “filantropi”), dotati di uffici stampa e legioni di avvocati pronti a tirar fuori dalle patrie galere i loro droni.