L’antica storia di Oppido Mamertina

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La città venne distrutta dal terremoto del 1783, di cui oggi rimangono solo disadorne vestigia, ormai custodi sconvolti di un eccidio che ha segnato la memoria e la storia. Sono trascorsi 236 anni da “Il Grande Flagello”, il funesto terremoto che distrusse gran parte dei territori calabresi, tra cui ci fu Oppido Mamertina, cittadina che sorge alle pendici dell’Aspromonte nord-occidentale, ricostruita dopo il 1783 nel pianoro della Tuba, a circa 4 km dall’antico sito.

L’antica città oggi è un museo a cielo aperto, in cui le malinconiche rovine ormai appartengono gran parte a privati, che li hanno utilizzati per piantare alberi di ulivo, fusti divenuti ormai secolari e guardiani robusti della memoria del paese ancestrale. Anticamente Oppido era situato sull’altopiano delle Melle ed era raggiungibile tramite due impervie mulattiere che conducevano alle porte di Nord e di Sud. La città era dotata di un castello con uno stile aragonese dalle imponenti torri merlate (con probabili rifacimenti dovuti agli Angioini). Dell’imponente maniero oggi rimangono solo due bastioni e il muro di cortina. Non mancavano chiese e conventi. La Cattedrale, come ci informa lo storico Rocco Liberti, era dedicata alla Vergine Assunta ed aveva tre navate suddivise in pilastrini. La seconda chiesa parrocchiale era quella dell’Abazia. Era presente anche un Seminario e quattro conventi. Purtroppo resta solo la testimonianza del Convento dei Paolotti. Il vortice tellurico ha risucchiato molti dei citati edifici religiosi, di altri rimane solo l’allusa planimetria in cui si riesce a ricostruire il vetusto splendore.

La vita comunitaria venne sconvolta il 5 Febbraio 1783. Secondo alcuni storici era circa mezzogiorno o secondo altri tre quarti d’ora dopo quando iniziò la prima scossa, che durò cento eterni secondi con un’intensità che raggiunse l’undicesimo grado della scala Mercalli. Gli scossoni si susseguirono così rapidamente che 1.198 su 2.408 abitanti persero la vita. Molte piantagioni, edifici, conventi, chiese presenti nella cittadina sprofondarono nel fiume Tricuccio. Il tragitto per giungere nell’antica Oppido è alquanto tortuoso, ma appena il visitatore giunge alle porte di “suso” e d’“abbasso” (così venivano anticamente chiamati gli ingressi del borgo medievale) rimane ammaliato di fronte alle bellezze che appaiono alla sua vista. Le secolari vestigia dell’antica città sono pervase da un tacito silenzio, in cui il tempo sembra non essersi mai fermato.

Lo Stato, dopo svariate segnalazioni sul patrimonio dell’area oppidese, intervenne solo in epoche recenti con interventi sporadici, ma si dimostra ancora sordo a valorizzare un sito archeologico che potrebbe diventare un capolavoro d’arte se solo fosse opportunamente potenziato. Per poter realizzare questo sogno serve la sinergia delle autorità competenti e di quanti siano interessati alla valorizzazione di un’eredità che non può essere lasciata nell’oblio.