Con Curridori la disabilità è politicamente scorretta

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«Certo che sono politicamente scorretto: io sono handicappato, non diversamente abile». Tranchant, profondo, commovente, ironico. Francesco Curridori racconta di lui e del suo libro («Nato all’incontrario», Koiné, pp. 156, € 18,00) intervistato dal direttore di «CulturaIdentità» Edoardo Sylos Labini, nella cornice di Borri Book a Stazione Termini. Una chiacchierata amabile e senza peli sulla lingua, dalle questioni pratiche a quelle esistenziali generate dall’invalidità che ha colpito il giornalista sardo fin dalla nascita: una nascita, per l’appunto, «all’incontrario», con quel cuore malformato che l’ha immediatamente gettato nella lotta per la vita. Lui, insieme a tutta la sua famiglia.

«Nato all’incontrario», di Francesco Curridori (Koiné, pp. 156, € 18,00)

Una lotta che finora Curridori sente d’aver vinto: «dopo il Venerdì Santo viene sempre la Pasqua». Ma che sa anche essere una partita truccata: «Io non ho temuto il covid perché da immunodepresso posso essere ucciso dal più stupido dei virus. Uno in più, uno in meno, che mi cambia? Ma quando ho visto molti amici conosciuti nei reparti ospedalieri, trapiantati di cuore come me, che non ce l’hanno fatta, allora mi sono detto che era ora di scrivere questo libro». Un libro che era nell’aria: «Arrivato a 40 anni ho deciso che dovevo fare il bilancio della mia vita, anche se una biografia a quell’età è abbastanza inusuale». Anche se in effetti il pensiero corre subito a Marina Ripa di Meana…

Stimolato da Sylos Labini, Curridori si mette a nudo: «La disabilità c’è, chiude tante porte, ma è anche una possibilità. Io le chiamo “le sfighe” della vita, ma le vedo tutto sommato come incidenti di percorso». Un percorso partito dalla Sardegna, continuato al Gaslini di Genova e culminato col trapianto, a 17 anni, al Bambin Gesù di Roma. Così anche Curridori è trapiantato, come il suo cuore. E infatti, alla domanda – d’obbligo – del direttore di «CulturaIdentità» sulla sua terra identitaria, Curridori non può rispondere che sia «la natia Sardegna». Troppo poco il tempo passato là. C’è Genova e poi soprattutto la capitale, dove si è trasferito per curarsi meglio ma anche per coronare il suo sogno di diventare giornalista. Una meta raggiunta grazie al supporto del padre e della madre, che nella migliore e più archetipica delle maniere hanno rappresentato – e rappresentano – per lui rispettivamente l’asse verticale dell’indirizzo e della crescita intellettuale e quello orizzontale della cura, dell’affetto e della tenerezza. Il papà di Francesco ringraziato fin dalla prima pagina per averlo instradato alla passione per la politica (o meglio, per il racconto della politica) e la mamma, presenza attiva perché per assisterlo nella ormai definitiva trasferta romana, l’ha seguito.

Una vicenda fatta di scelte forti dunque. Del resto, Curridori ha smesso da tempo di fare l’oziosa domanda del «perché proprio a me?». «C’è un disegno più grande. Inutile cercare di capirlo. Invece di chiedermi perché, ho iniziato a chiedermi “bene, e ora cosa posso fare?”». Nessun piangersi addosso, dunque, ma rimboccarsi le maniche. «Non voglio essere un disabile a tempo pieno» scherza Curridori «Anche nel libro, sebbene parta da quello, parlo di politica, fede, amicizie, lavoro, amori (tasto dolente)» conclude scherzando.

A quel punto la domanda arriva inevitabile: e con le donne? Curridori dà una risposta un po’ red pill: «Punto alla donna di categoria superiore. Se non posso avere quella, meglio niente». Poi ci sono le amiche, che sono tante: «Capire le donne è difficile, meglio dunque farsele spiegare direttamente da alcune di loro». A proposito dell’amore, l’autore, in separata sede, ci confida: «Per un disabile accettare quei no è sempre difficile, ma quando ami veramente desideri solo il bene per la persona che ami e, quindi, accetti anche di non starci insieme. Per esperienza, ti dico che anche da un “no” può nascere qualcosa di meraviglioso».

Quindi il lavoro: «Se ti chiamassero andresti a “Repubblica”?» gli chiede Sylos Labini. Attimo di silenzio. Tutti ridono. «Mi avevano chiesto d’andare al “Fatto Quotidiano”, ma non mi sarei trovato bene con Travaglio e Peter Gomez. Al “Giornale” invece ho avuto direttori come Sallusti e Minzolini, che sono mostri sacri. Poi capite bene, ho fatto la tesi di laurea su Montanelli…». L’intervista memorabile e quella bucata? «Bucate, tante. Quella memorabile devo ancora farla. E da cronista politico, il mio sogno sarebbe stato lui, Berlusconi. Ora che non c’è più… beh, tutto il resto è noia». Un mito, quello del Cavaliere, tanto per la fede calcistica milanista di Curridori quanto per il dato biografico: «Lo devo ringraziare per “Bim Bum Bam”, che per un bambino costretto a lunghi pomeriggi in ospedale è stato una grande compagnia».

«E la tua coscienza politica, come nasce?» gli chiede Sylos Labini. Curridori la prende larga, ma colpisce preciso: «se sinistra e destra si dividono principalmente perché la prima ritiene essere più importante l’uguaglianza e la seconda la libertà, io preferisco la libertà. Io non voglio essere “uguale”. Preferisco essere unico e spero che nessun altro abbia quello che ho io». Senza rimpianti, senza pietismi e soprattutto senza «maquillage linguistico», che non cambia nulla della condizione di una persona invalida. Fatti, non parole: «Se mi chiami “diversamente abile” anziché “handicappato” mi hai cambiato la vita? Nemmeno di una virgola. Piuttosto, metti un ascensore per scendere alla Metro A di Ottaviano. Chiamami come ti pare, “diversamente abile”, “disabile”, “handicappato”, Pippo, Pluto o Paperino, ma fai funzionare le cose. Quello cambia in meglio la vita, non le parole».

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