Fermo immagine. Fermo, immagina. Quanto ci assomigliano le parole di Lucio Battisti oggi? Oggi che ci chiediamo, il senso, il significato, la psicologia, “che anno è? Che giorno è? Questo è il tempo di…?”.
Ecco che tempo è, se non quello di iniziare a concepire il nostro “canto libero”? “In un mondo che, prigioniero è, respiriamo liberi io e te”.
Ecco, Lucio Battisti, passato il Sanremo della più triste pseudo provocazione, nell’epoca arcobaleno dell’ideologia woke e della musica ridotta a macelleria, la cupa meraviglia lucente delle parole in musica di Battisti sono un inno alla muta, alla rinascita, alla stagione nuova. Stagione nuova che non può prescindere da noi stessi: nessuno si salva da solo. Stagione nuova che parte da noi stessi, nessuno verrà a salvare i nostri valori portanti, nessuno verrà a salvarci dall’ipertrofia del mondo, dalle logiche globali, che ci rendono, minuto dopo minuto, strumenti di produzione, replicanti, sterilizzati, incapaci di reagire, isole isolate (nonostante le meravigliose parole di John Donne tentarono di insegnarci altro: “nessun uomo è un’isola”), chiuse in una solitudine di gratificazione istantanea, costretti a ringraziare per le gentili concessioni, conclusi nella dittatura dell’immagine-verità. La musica di Battisti è una sofferenza che traduce l’eterno e l’armonia. La pretende, in fondo, la vuole, quasi a pentirsi accusandosi e soffrendo di sé, quasi come l’ultimo riflesso di coscienza di un impiccato. La musica di Battisti, nella sua tristezza e nella sua forza, parla di fine e resurrezione, di accumulo ed esplosione. D’amore immenso e, spesso, indefinito ma reale.
“Come può uno scoglio/Arginare il mare/Anche e non voglio/Torno già a volare/Le distese azzurre/E le verdi terre/Le discese ardite/E le risalite/Su nel cielo aperto/E poi giù il deserto/E poi ancora in alto/ Con un grande salto”.
Ecco perché non riusciamo a liberarcene, nelle mille TRAPpole commerciali, musicali, odierne: perché rimarrà come impronta di musica più colta. Colta in quanto capace, nella stupida scioccheria infantile odierna, di rappresentare una coltivazione di noi stessi, dell’anima, dei pensieri, delle riflessioni. Ci impone di riflettere e rifletterci alla storia e quindi di ragionare sopra le cose. Di maturare un pensiero (critico). E qui vive la cultura.
Ma Battisti, nel suo essere mitologico, poiché assurto a mito della musica italiana e in quanto fuso con l’estro miracoloso di Mogol, non è solo profondo respiro che precede la riflessione. È anche rivoluzione in musica e pittore sociale. C’è il ricordo, la morte, l’emozione, la sofferenza, l’amore per una donna che diventa leitmotiv, come una porta che apre a tutte le riflessioni sul mondo e su se stesso. Una piccola, grande rivoluzione in musica, nella musica leggera italiana- baldacchino di legno e porpora impolverata restituita non con la potenza della voce, rauca, rara, accennata, ma dell’interpretazione, dell’artista che si fa arte e non si limita all’artigianato dell’estetica. E in questo Battisti si fa grande. Si fa grande nella cultura musicale che fonde ritmi e visioni, generi, come ricorda Gianni Poglio su Panorama, parlando della sua opera e ponendo sfumature su Anima Latina, disco meno noto del 1974 : “le sue composizioni erano figlie di ore e ore di ascolti e di illuminati esperimenti in sala d’incisione, dove Lucio diventava il regista della Bellezza in musica”.
Reinventare il pop, riempirlo di anime e pensieri, elevarlo pur percorrendone insieme i tratti più leggeri maneggiati con cura, da “Mi ritorni in mente” a “Maledetto gatto” o “Una donna per amico”. Che anno è, che giorno è? Quello del nostro canto libero, libero dai talent show e dalla degradazione della musica; libero da chi ci schiavizza in nome della libertà.