Dopo aver fotografato la difficile situazione familiare di casa D’Annunzio ed aver ascoltato le amare riflessioni della moglie e della madre, ci siamo imbattuti nella protagonista di questo racconto, Elvira Natalia Fraternali. Dalle confidenze raccolta da sua sorella Teresa, abbiamo compreso quanto fosse angusto il passato di questa donna, mortificata da padre e madre, indifferenti alle sue adolescenziali istanze e quanto buio si fosse rivelato un precipitoso matrimonio, ispirato da convenienze commerciali paterne. Una normale quanto aberrante situazione in cui versavano la quasi totalità delle donne di quella epoca. Lo scontro col marito aveva provocato rivelazioni insopportabili, certamente acuite dal conseguenziale trasferimento a Milano, sede del lavoro del marito. La giovane Elvira si era scontrata con lo sdegno e l’orrore dell’impatto sessuale, che, non assistito da amorevole vicinanza sentimentale, si era subito tramutato in aperta repulsione. Il contrasto tra i due, ormai assurto a vera e propria battaglia, era drammaticamente terminato con una indesiderata gravidanza. Indesiderata non già per l’avversione di Elvira alla maternità, che invece fu sempre viva in lei come aspirazione, quanto per l’occasione che l’aveva generata e che insopportabilmente l’avrebbe legata ad un uomo profondamente detestato.
Lo scorrere dei dialoghi ci introduce a conoscere il motivo del definitivo fallimento matrimoniale, che, in verità, avrebbe avuto ben poche possibilità di riuscita. Un tormentato accertamento sanitario rivelerà alla giovane moglie la presenza di un morbo vergognoso, attaccatole dal marito che sfogava in postriboli le proprie pulsioni represse. Potrebbe essere motivo di disperazione verso una vita così avara di soddisfazioni, ricca di dolore e di dispiaceri, ma Elvira saprà trasformarlo in un’ occasione di distacco da quell’esistenza che non le apparteneva. Una sorta di salvagente insperato per traghettarla verso nuovi orizzonti. Così Elvira parte e ritorna a Roma. Con la scusa di rimettersi, che poi scusa non è, perché era in uno stato di massima prostrazione, sale sul treno ed abbandona la casa coniugale. Immagino che per rabbonire il Conte Ercole abbia evasivamente formulato una decisione non definitiva, ma al solo scopo di raggiungere la stazione e salire in carrozza. In realtà aveva già deciso senza alcun ripensamento. Si sceglie di essere felici; o, quantomeno, di non essere infelici. E se Elvira non se l’era sentita di restare a Milano, tempo prima, per completare gli studi di pianoforte che rappresentava una sua genuina passione, a maggior ragione non voleva restare nella capitale lombarda alla mercè di un marito spregevole.
Roma non è il paradiso. L’aspettano genitori che non condivideranno mai la sua scelta di lasciare il Conte e non mancheranno di farglielo pesare, egoisticamente preoccupati dalla previsione che in una scelta di solitudine, un futuro decoroso le verrà a mancare. Una giovane e bella donna ( Elvira lo era, se dobbiamo credere a tutti gli ammiratori, persino tra amici di D’Annunzio) testimoniata dalla foto tessera, l’unica a nostra conoscenza che la ritrae a tutto viso, dalla bella voce e dalla riconosciuta abilità di ottima pianista, poteva farsi largo tra parecchi pretendenti e sceglierne il migliore. Ma sarebbe stata una donna divisa dal marito, destinata ad un amante, che nel mondo aristocratico avrebbe avuto una valenza affascinante, ciò non di meno tra la borghesia pruriginosa della Capitale, intrisa di perbenismo ecclesiastico, avrebbe provocato una riprovevole figura peccaminosa. Eppure tutto era meglio di Milano. Di Ercole. Di quel becero matrimonio. E così va incontro al suo futuro finendo dritta nell’incontro con una vecchia amica di infanzia. Trasteverina, come lei. Ma più scaltra.
Buona lettura.
ELVIRA
…paralipomeni di un amore noto
Buio. Poi luce. I coniugi Leoni spariscono per far posto alle sorelle Fraternali. Il salotto ipotetico stavolta è quello del solito albergo. Compare una foto di Rimini alla fine dell’Ottocento e poi una scritta.
Rimini. Fine agosto 1887
Albergo turistico
ELVIRA: …e alla fine incinta mi ci ha messo…
TERESA: …ma la malattia non era passata…
ELVIRA: E’ stato un bene.
TERESA: Ci credo…
ELVIRA: Tu non sai, Teresa mia, quanto mi disperavo per questo figlio che mi cresceva dentro e mi sembrava una catena – l’unica catena – che mi tenesse unita a lui. Avevo preso ad odiarlo.
TERESA: Povera creatura. Lui non c’entrava niente. Io ne ho parlato con mamma quando è venuta a Torino, ma lei pensava solo al nipotino e vedeva una bella cosa, che magari avrebbe aggiustato tutto e ti avrebbe anche addolcito il carattere con Ercole.
ELVIRA: Impossibile. Non ne potevo più! Sapessi che sollievo sapere che la gravidanza si era interrotta…
TERESA: Capirai, si era interrotta perché l’infezione non era passata. Questo avrebbe dovuto preoccuparti…
ELVIRA: Non me ne fregava niente. Nemmeno che stavo male. Finalmente avevo trovato la forza di gridare ad Ercole che tornavo a Roma.
TERESA: Per rimetterti in salute.
Buio. Poi Luce. Le sorelle Fraternali spariscono. Il salotto ipotetico diventa ora quello della casa dei coniugi Leoni a Milano, tre anni prima. Un ricordo del passato bruciante. Compare l’immagine di Milano alla fine dell’Ottocento e la scritta
Milano 1884
Casa dei coniugi Leoni
ERCOLE: Allora parti domani?
ELVIRA: Sì, Ercole. Vado a ristabilirmi.
ERCOLE: Posso venire a trovarti..?
ELVIRA: No. Ti prego. Fammi stare un po’ da sola. Sono stati momenti brutti…
ERCOLE: Ma poi torni, vero?
ELVIRA: Vedremo. Fammi stare tranquilla.
ERCOLE: Va bene, ma non ti preoccupare per l’aborto. Succede. Ci riproveremo e avrai un altro figlio.
ELVIRA: ( spazientita ) Ercole…
ERCOLE: Io un figlio lo voglio, Elvira. E tu sei mia moglie. Io ho il diritto …
ELVIRA: (arrabbiata)…tu c’hai er diritto d’anna’ co’ chi te pare, ma no co’ me!. Io vojo solo che me lasci in pace! E soprattutto ‘n fijo, n’artro, da te nun lo vojo!
ERCOLE: Non ti arrabbiare. Stiamo discutendo.
ELVIRA: Ecco, te lo dico calma. Stammi lontano.
ERCOLE: E noi?
ELVIRA: ( calmandosi al solo scopo di convincerlo) Noi ‘n ce semo mischiati bene, Ercole. Te ne renni conto pure tu. Che senso c’ha continua’ a facce solo male?
ERCOLE: Tu arrivi subito alle conclusioni. Ma a me non ci pensi?
ELVIRA: Proprio perché ce penso te chiedo di resta’ qui a Milano. Stamme vicino, specie dopo quello che è successo, po’ solo aggrava’ le cose.
ERCOLE: Ma io posso chiedere il trasferimento di ufficio. Sono sicuro che me lo concederebbero. Nel frattempo tu trovi una casa per noi a Roma e quando è tutto pronto io arrivo.
ELVIRA: Ma allora n’hai capito gnente..?
ERCOLE: No. Io invece ho capito tutto. Penso che a Roma, nel tuo ambiente, con i tuoi amici, la tua famiglia, vedrai tutto in una luce diversa ed anche i nostri rapporti potrebbero cambiare.
ELVIRA: Potrebbero solo peggiora’, Ercole…
ERCOLE: Elvira, ti prego, io voglio stare con te. Io mi sono reso conto che mi sei indispensabile, come l’aria che respiro.
ELVIRA: ( furiosa) Ah, sì? E pure quanno me meni, me riempi de’ schiaffoni, te so indispensabbile? Pure l’artro giorno che m’hai tirato er vaso addosso l’hai fatto pe’ famme resta’?
ERCOLE: Mi hai cacciato dalla camera da letto. Io volevo stare con te, ma non lo capisci?
ELVIRA: No. Sei te che n’ capisci!
ERCOLE: Elvira, una moglie non può sottrarsi ai doveri coniugali. Mi sono informato. Ti è piaciuto portare il nome di Contessa Leoni? Allora ne devi sopportare le conseguenze.
ELVIRA: Mi’ padre, quer titolo – che poi m’hanno detto pure ch’è fasullo – te l’ha pagato. E bene. Co’ na dote che t’è servita pe’ copritte i buffi.
ERCOLE: Non è vero.
ELVIRA: Che, n’è vero? Che te l’ha pagato o che i sordi te serviveno pe’ pagatte i buffi?
ERCOLE: Io sono il Conte Ercole Leoni, sono un uomo rispettato, che ha dato lustro alla tua famiglia di bottegai. Avevate la puzza di Trastevere e io ve l’ho tolta di dosso. Dovreste baciarmi le mani. E quanto è vero Iddio, tu sei mia moglie e mi darai un figlio!
ELVIRA: Ercole, mo te lo dico n’artra vorta e poi bbasta! Io co’ te nun ce voijo sta’! Nun voijo più nessun rapporto! E’ chiaro o te lo devo scrive? Torno a Roma e lì arimango.. Fattene ‘na raggione e vivite la vita tua…
Buio. Poi luce. I coniugi Leoni spariscono per far posto alle sorelle Fraternali. Il salotto ipotetico stavolta è quello del solito albergo. Compare una foto di Rimini alla fine dell’Ottocento e poi una scritta.
Rimini. Fine agosto 1887
Albergo turistico
TERESA: La Mia Elvira! Determinata e cocciuta, capace di fare quello che vuole. C’è voluto il coraggio tuo per compiere questa scelta difficile.
ELVIRA: Non è stato il coraggio, ma la disperazione.
TERESA: Forse. Ma anche coraggio. Tornare a Roma, sola, alla mercè delle maldicenze che ti vedevano giovane sposa senza marito e si domandavano il perché…
ELVIRA: Non mi è mai importato niente delle forme. Avevo tanta di quella rabbia in corpo che avrei raccontato a tutti la verità.
TERESA: Non l’avrebbero capita. Una bella donna sola…
ELVIRA: …con una gravidanza interrotta e tanto schifo addosso…
TERESA: Meno male che mamma e papà l’hanno presa bene.
ELVIRA: Non credo proprio.
TERESA: Ti hanno aperto la porta. Ti hanno accolto.
ELVIRA: E che altro potevano fare? Ero in uno stato pietoso.
TERESA: Io avevo paura della reazione di papà, che è sempre impulsivo…
ELVIRA: E invece a farmela scontare, soprattutto, è stata mamma.
TERESA: Lo so. Me lo ha scritto. Per lei il matrimonio è sacro. Lo sai che è credente. Ma ti ha aperto la porta. Ti ha fatto restare…
ELVIRA: …solo perché sperava che le cose si riaggiustassero.
TERESA: Dai, ti ha anche protetto da Ercole, che ogni tanto tornava a Roma per tentare di ricucire il rapporto con te.
ELVIRA: Me lo ha fatto pesare, Teresa. Da quella bigotta che è non ha perso occasione per dirmi che la facevo vergognare di avere una figlia separata dal marito e che non voleva saperne di stare con lui. Che era una cosa che Dio non permetteva. Una umiliazione continua. Come se fosse colpa mia, se le cose stavano così.
TERESA: Sono vecchi. Vanno capiti. Hanno il loro mondo e tutto quello che è contrario lo subiscono come un pericolo, una sventura.
ELVIRA: Ma che stavo male, lo vedevano, o no?. I disturbi, gli svenimenti, le visite dal medico che aveva confermato la diagnosi del collega di Milano…Quello, Dio lo permetteva?
TERESA: E’ vero. Non lo poteva permettere.
ELVIRA: Se non ci fosse stata la mia vecchia compagna Lavinia, che ha preso per mano questo essere appassito e le ha ridato forza e vita, chissà che avrei fatto…
TERESA: Lavinia …
(…continua)