Un canale navigabile da Genova alla valle del Po…

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Ci aveva già pensato Napoleone Bonaparte

Quell’ardito progetto dell’ingegnere Mario Garbellini

Dagli archivi del ministero dei Trasporti ecco riemergere un progetto di “cripto ingegneria” apparentemente folle, ma forse realizzabile e in ogni caso di estrema attualità.
Svariate e a volte molto curiose sono state le proposte di progetti portati a compimento, almeno sulla carta, da studiosi e ingegneri per risolvere uno dei più gravi problemi infrastrutturali che penalizzano i porti liguri, schiacciati da una catena montuosa che impedisce loro di far fluire verso la Padania e l’Europa centrale il flusso delle merci. Risolvere il problema del Terzo Valico o meglio, aggirarlo attraverso un ardito quanto bizzarro progetto concernente una galleria sotterranea semi allagata, adibita al transito di barconi e chiatte, è stato il serio ma poco noto trastullo di più di un progettista. Il primo ad avere pensato a collegare il Mar Ligure con il Po mediante canalizzazione criptica fu addirittura Napoleone Bonaparte. Il 27 dicembre 1807, il condottiero corso appose infatti la firma per uno speciale “bando di concorso” che aveva per oggetto “la costruzione di un canale navigabile atto ad avviare le comunicazioni mercantili tra i porti di Genova e Savona e la valle del Po”. Dall’epoca del bando napoleonico, arenatosi sulle secche di molteplici quanto ovvi ostacoli tecnici, diversi sono stati gli studiosi e persino gli inventori, la stragrande maggioranza dei quali assolutamente sconosciuti o quasi, che si sono lambiccati il cervello per cercare di annullare l’handicap orografico rappresentato dalla barriera appenninica. E andando a spulciare l’Archivio del Ministero dei Trasporti (zeppo di faldoni e di ingiallite raccolte di progetti viari, ferroviari e idroviari d’ogni tipo, mai realizzati o addirittura mai presi in considerazione) salta fuori dopo circa quarant’anni un’idea partorita dall’ingegnere Mario Garbellini, un eclettico tecnico genovese, ormai scomparso da tempo, che alla precedente, quanto vaga, richiesta napoleonica, dava una risposta del tutto singolare. Verso la metà degli anni Sessanta, dopo molti studi, Garbellini concepì infatti un piano molto dettagliato per la costruzione di un “doppio canale navigabile sotterraneo di 23 chilometri di lunghezza destinato a collegare l’allora costruendo porto di Voltri ad Ovada e quindi alla valle del Po”. Il progetto, che a suo tempo venne addirittura esaminato dalla Commissione Tecnica del Ministero dei Trasporti e della Programmazione, consisteva nella costruzione di una linea idrografica sotterranea, articolata su due direttrici parallele e contrarie, in grado di fare scorrere al suo interno un traffico continuo di zattere, da Voltri ad Ovada e viceversa. L’opera, che avrebbe comportato, secondo il Garbellini, circa 15 anni di lavoro ed un investimento di 60 miliardi (del 1965) avrebbe consentito di smaltire un traffico complessivo merci di circa 32 milioni e 500 mila tonnellate.
Sulle prime, l’idea partorita dalla fervida mente dell’ingegnere genovese (specializzato in idraulica e meccanica) pare che avesse stimolato l’interesse dell’Ilres e di alcuni esperti olandesi e tedeschi di problemi relativi al traffico fluviale, tanto da essere segnalato e discusso, alla fine del 1965, al XXI Congresso Internazionale di Navigazione di Stoccolma e nell’ambito di successivi e analoghi simposi a Londra e a Lisbona. Ma vediamo più dettagliatamente le caratteristiche tecniche e funzionali dell’idrovia sotterranea. Finanziata (pia aspirazione) dallo Stato e da un “pool” di imprenditori e aziende private, la cosiddetta “galleria-canale di valico” sarebbe risultata agevole alle chiatte, nonostante il notevole dislivello altimetrico esistente tra Voltri e Ovada (circa 200 metri), mediante uno speciale elevatore “a conca” (come quelli in uso ad Amburgo e a Heinrichenburg, in Germania), capace di contenere una chiatta lunga 58 metri, larga otto e dotata di una capacità di carico di 600 tonnellate. Con questo elevatore, situato al terzo chilometro dall’ingresso sud del canale, presso Voltri, le imbarcazioni avrebbero potuto superare il dislivello e addentrasi nel tunnel. Le due gallerie-canale avrebbero dovuto avere un diametro di circa 16 metri e sarebbero state collegate tra di loro ogni 500 metri da appositi passaggi. L’intero sistema sarebbe stato ventilato da una serie di pozzi verticali comunicanti con l’esterno. Una volta imboccato il canale sotterraneo, riempito d’acqua per metà (fino a una profondità di circa 3 metri), ogni imbarcazione (delle 90 giornaliere previste), sospinta da un flusso costante di corrente, lo avrebbe percorso alla velocità media di tre chilometri l’ora. La soluzione a due direttrici parallele (una per l’andata e una per il ritorno) venne adottata da Garbellini per applicare il cosiddetto sistema di movimentazione a “fluitazione”. Facendo muovere l’acqua contenuta nei due canali mediante un sistema di normali pompe idrauliche per un totale di 1.500 CV, installate in testa al tunnel, i natanti avrebbero infatti potuto navigare senza l’ausilio di mezzi motori. All’uscita nord del canale, nell’area transappenninica, era prevista poi la costruzione di un piccolo lago artificiale con funzione di punto di smistamento e di sbarco: in sostanza, un sito portuale in miniatura collegato da una linea ferroviaria ai centri industriali della Pianura Padana. In ogni caso, il progetto Garbellini prevedeva anche la costruzione opzionale di un altro canale, più piccolo, che collegasse il lago artificiale al corso del Po. Ma non è tutto. Il sistema di alimentazione idrica del canale ‘underground’, alimentato per circa 21 chilometri dallo sfruttamento delle falde sotterranee, avrebbe potuto trasformarsi all’occorrenza in una vera e propria condotta di drenaggio artificiale nelle viscere della dorsale ligure appenninica, contribuendo, mediante condotte a caduta, a coprire le emergenze idriche stagionali dell’estremo ponente genovese. A più di 65 anni di distanza, l’ardito e curiosissimo progetto dell’ingegnere Mario Garbellini continua comunque a giacere nelle segrete di un archivio romano, sepolto sotto una montagna di ovvio quanto giustificato scetticismo. Anche se non si può fare a meno che prendere atto dell’ormai quasi smarrita inventiva di cui erano capaci i genovesi di una volta.

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