Referendum Giustizia 2022: perché votare SI’

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Referendum Giustizia 2022: perché votare SI

Questo articolo è pubblicato su CulturaIdentità di maggio in edicola

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Il 12 giugno gli italiani sono chiamati a votare per il referendum abrogativo in materia di giustizia.

Cinque sono i quesiti ammessi dalla Corte costituzionale: sistema di elezione del Csm; equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali; separazione delle carriere; limiti agli abusi della custodia cautelare; abrogazione della Legge Severino.

All’inizio i quesiti erano sei, poi la Consulta ha dichiarato inammissibile quello sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Nel frattempo, il Parlamento è alle prese con un disegno di legge che riforma l’ordinamento giudiziario, ddl che – tra i molteplici punti affrontati – tratta anche tre materie oggetto di referendum: sistema di elezione del Csm, equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali e separazione delle carriere. Se approvato da entrambe le Camere, il Parlamento delegherebbe il governo ad emanare uno o più decreti legislativi entro un anno. Ma il nuovo sistema di elezione del Csm – secondo le norme contenute nel disegno di legge – non è oggetto di delega, dunque entrerebbe in vigore subito dopo la pubblicazione della legge delega sulla Gazzetta Ufficiale. In tal caso il quesito referendario verrebbe meno. Medesimo discorso sulla separazione delle carriere: la materia non è oggetto di delega ma di diretta applicazione, tuttavia il quesito referendario abrogherebbe ogni passaggio di funzione (da magistratura requirente a giudicante e viceversa), mentre il ddl prevede un solo passaggio di funzione rispetto ai quattro attuali: spetterà alla Corte di Cassazione decidere se mantenere o meno il quesito referendario, ma è molto probabile che lo mantenga visto l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato. L’equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari è invece materia oggetto di delega, dunque il referendum si farà.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, se la legge delega fosse approvata da entrambe le Camere e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale entro la fine di maggio/inizi di giugno, è sicuro che resterebbero validi tre quesiti referendari: limiti agli abusi della custodia cautelare; abrogazione della legge Severino ed equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali. Su questi il popolo si dovrà in ogni caso esprimere il 12 giugno. Salterebbe di sicuro solo quello sul sistema di elezione del Csm, mentre in merito al quesito sulla separazione delle carriere deciderà la Corte di Cassazione (in linea di massima dovrebbe tenersi).

Il referendum abrogativo è regolato dall’art. 75 della Costituzione e prevede l’abrogazione, totale o parziale, delle disposizioni di una legge o di un atto avente forza di legge oggetto di quesito, che viene sottoposto all’elettore con formula abrogativa. Perché il referendum sia valido occorre che si rechi a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto.

Quesiti referendari

1. Sistema di elezione del Csm

Il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati. I membri “laici” non hanno bisogno di candidarsi in liste, sono infatti eletti dal Parlamento tenuto conto dei soli requisiti indicati dalla Costituzione: vanno scelti tra i professori universitari ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio. Per i membri “togati” esiste invece la procedura regolata dall’art. 25 della Legge 24 marzo 1958, n. 195. Il terzo comma dell’art. 25 prevede che i magistrati che intendono candidarsi al Csm presentino la loro candidatura in “una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta”. È da qui che nasce il sistema delle correnti, servito negli ultimi trent’anni per intervenire a gamba tesa nel processo democratico del Paese. Il quesito referendario mira a scardinare questo meccanismo consentendo ai magistrati di presentare la propria candidatura senza aderire a liste precostituite.

2. Equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali

Presso ciascun distretto di Corte d’appello sono istituiti consigli giudiziari distrettuali, detti anche mini-Csm. Sono composti per lo più da magistrati, ma anche da professori universitari in materie giuridiche e avvocati. Tra le funzioni dei consigli giudiziari c’è anche quella della valutazione sulla professionalità dei magistrati, dal cui voto sono però esclusi professori e avvocati, i quali si limitano al semplice parere. Il quesito mira ad abrogare le disposizioni di legge che consentono l’esclusività di espressione del voto ai soli magistrati. Le norme interessate dal quesito abrogativo sono alcune di quelle contenute nel Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150. L’obiettivo è evitare l’autoreferenzialità della magistratura. In caso di abrogazione, avvocati e professori universitari potranno infatti esprimere la loro valutazione, al pari degli altri componenti, in ordine alla professionalità dei magistrati che prestano servizio nel distretto.

3. Separazione delle carriere

La funzione requirente è quella svolta dal pubblico ministero che fa le indagini, quella giudicante è svolta invece dal giudice di tribunale. Il quesito referendario riguarda l’abrogazione delle disposizioni che consentono il passaggio dei giudici dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa. L’art. 111 della Costituzione riformato nel 1999 ha trasformato il processo penale da inquisitorio ad accusatorio, secondo quanto previsto dal nuovo codice di procedura penale del 1989, ma l’ordinamento giudiziario permette ancora l’intercambiabilità delle funzioni giudiziarie. Ad oggi l’accesso in magistratura consente al vincitore del concorso di optare per la funzione prescelta (requirente o giudicante) e cambiarla fino a quattro volte nel corso dell’intera carriera, con un intervallo di almeno cinque anni da un cambio all’altro. Nel caso in cui al referendum vincesse il sì all’abrogazione, una volta intrapresa una delle due carriere il magistrato non potrebbe più optare  per l’altra. Ciò garantirebbe la piena realizzazione del principio costituzionale del “giusto processo”, il quale deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità e davanti a giudice terzo e imparziale.

4. Limiti agli abusi della custodia cautelare

La custodia cautelare in carcere è un provvedimento restrittivo della libertà personale emanato dal giudice prima del processo, cioè prima di una sentenza. È consentita solo qualora sussista almeno una delle esigenze cautelari: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove, di reiterazione del reato. Dai tempi di Tangentopoli della carcerazione preventiva si è continuato a fare un uso sconsiderato, il più delle volte nei confronti di persone risultate poi innocenti. Ad oggi in Italia finisce in carcere un innocente ogni tre giorni! Se vincessero i sì all’abrogazione, le misure cautelari (tra cui quella del carcere), sarebbero applicabili soltanto nei casi stabiliti dal primo periodo della lettera c) dell’art. 274, comma I c.p.p., vale a dire solo per “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. Dunque, non è vero che assassini, rapinatori o stupratori non finirebbero più in galera: per questi reati, e per quelli di mafia o di sovversione dell’ordine democratico, la custodia cautelare in carcere sarebbe ancora applicabile.

5. Abrogazione della Legge Severino

Sull’onda dell’antipolitica il Governo Monti adottò, su delega del Parlamento, il D.Lgs. n. 235/2012 (“Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo”). Il Decreto prevede la incandidabilità alla Camera e al Senato, oltre che al Parlamento europeo, di tutti i soggetti condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena superiore a due anni di reclusione per delitti non colposi, con l’automatica interdizione dai pubblici uffici (quindi anche dal ricoprire incarichi di Governo) per un periodo di sei anni, compresa l’esclusione dal Parlamento – se la sentenza passa in giudicato dopo l’elezione – su decisione della Camera di appartenenza. La legge interviene anche nei confronti dei Sindaci, che decadono dalla carica addirittura dopo la condanna in primo grado. Il quesito mira ad abrogare la Legge Severino al fine di scongiurare i “processi politici”, in modo tale da evitare che siano i giudici a decidere – al posto del popolo – chi può essere eletto e chi no.

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