Massoneria, spiritismo, alchimia, cabala: il Poeta e il suo rapporto con l’occulto
Grandissima, poliedrica è la personalità di Gabriele d’Annunzio: poeta, eroe di guerra, colombiere, Vate del popolo Italiano. Uomo superstizioso, curioso della vita in ogni suo aspetto, fu attratto dal mondo esoterico e da tutto ciò che era misterioso, occulto. Studiò la Cabala, l’alchimia, ogni forma di medianità tanto da sperimentarne i molteplici aspetti. Nel primo decennio del 1900 visse in Francia ed ebbe contatti con i medium più famosi dell’epoca e con personaggi dediti alle arti magiche ed esoteriche come la sua cara amica italiana la marchesa Luisa Casati o la contessa Greffulhe, cugina del poeta Robert de Montesquois e il musicista Claude Debussy inquieto indagatore dell’occulto.
Racconta il suo segretario Tom Antongini che nel 1913 d’Annunzio si receva spesso da una veggente che abitava a Parigi, era una monaca defroquèe le cui predizioni impressionanti si avveravano, ne era entusiasta. Invitò a Parigi anche la nota medium Eusapia Palladino con cui partecipava a sedute spiritiche, cosa di moda in quell’epoca.
L’incontro con il noto compositore Debussy lo fece avvicinare alla società segreta massonica del Martinismo: una disciplina esoterica e simbolica, anti Illuminista, antirazionale, i cui seguaci ricercavano la verità e il fine del tutto attraverso l’alchimia e le pratiche esoteriche.
Assunse il nome di Ariel con cui amava firmarsi, ebbe il massimo grado di Superior Inconnu.
Secondo certa letteratura apocrifa giudaico-cristiana l’arcangelo Ariel, 46° della Sephira, ha molta influenza sulle cose terrene e sui suoi elementi. Il Vate si riconosceva nell’arcangelo Ariel, il cui nome significa era convinto significasse «Dio delle rivelazioni»: nel suo nome vi è una forza alchemica che rende espliciti i segreti nascosti della natura. Aiuta nella ricerca scientifica ed artistica e, cosa che perseguirà il Poeta in tutta la sua esistenza, dona la possibilità di unire scienza e arte con la spiritualità ed il soprannaturale elargendo una percezione rivelatrice.
In una lettera del 7 settembre 1919 a Luisa Baccara, sua amante, rivela la gioia nel sperimentare pratiche alchemiche «Cara piccola amica stanotte è avvenuto un miracolo. Prima di coricarmi, sono andato a vedere se il sangue, nel crogiuolo, fosse nel secondo stadio per diventare granato. I granati erano perfetti! Il domestico mi ha raccontato di aver sentito ruggire il fuoco, accostandosi all’uscio del mio laboratorio alchimistico, mentre la vostra voce eroica cantava: ”Per la pace dei morti e degli eroi. Fuori i barbari!”»
In seguito il Poeta si allontanerà dal Martinismo, aderendo all’ordine massonico-cabalistico dei RosaCroce; l’esoterismo rosacrociano si manifesta nell’idea dell’Unità del reale, che è la compenetrazione tra l’umano e il divino, la materia e lo spirito. Al Vittoriale, sua dimora, nel Portico del Parente, stanza nei pressi del giardino, dov’egli si ritirava a meditare, è scritto: «La bestia è una forma del divino; anzi il più misterioso aspetto del divino. Aspiro al Dio unico, cerco il Dio soprano e sento come Quel Che in Me Divino tenda a ricongiungersi col Dio inaccessibile, si sforzi di possederlo».
Profondo conoscitore dell’Induismo e dei Veda, amava la pietra smeraldo che questi ritenevano fosse rigenerante, con antichi Egizi condivideva il forte potere esoterico di essa, era il simbolo di vita eterna, veniva messa al collo delle mummie per accompagnarle nel viaggio nell’oltretomba; la chiamava «la gemma della buona fortuna», era per lui la pietra della magia, simbolo di conoscenza, di chiave iniziatica. L’antica tradizione cabalistica racconta che lo smeraldo fosse caduto dalla fronte di Lucifero, quando fu cacciato dal Paradiso. Presa dagli angeli, fu scolpita a forma di coppa, la coppa del Santo Graal appunto. Secondo gli alchimisti è simbolo di una conoscenza misteriosa che trascende la realtà. Il Vate indossava spesso un anello con smeraldo regalatogli dall’amata Eleonora Duse. Nel volo su Vienna lo portava in segno augurale e omaggiava i suoi più cari amici con questa potente pietra scaramantica.
Dopo la perdita dell’occhio destro, lesionato in una missione di guerra nel 1916, d’Annunzio si chiuderà in un silenzio meditativo: sarà l’Orbo Veggente, colui che con il linguaggio poetico tradurrà l’ignoto che si cela nella realtà apparente, quella che tutti vedono e vivono. Tradurre l’arcano, il mistero celato è un compito dato a pochi, l’arte, la poesia possono decodificare tale messaggio, la Verità.
Studia, contempla Dante e Michelangelo che egli chiama «Parenti», Parens, genitori dell’anima. L’arte di Michelangelo è ammirata nella Stanza della Leda al Vittoriale, nella copia della statua donatogli da Eleonora Duse nel 1905 il «Prigione morente», dove il suo spirito sofferente combatte contro la sua prigione carnale, per liberarsi nella Verità, il mutamento del blocco marmoreo nella contemplazione, rivela l’arcano.
In Dante vede il profeta d’Italia perché presagì i confini nord-orientali unendo idealmente l’Italia. La Divina Commedia ha un valore simbolico, metafisico, esoterico, ha elementi cabalistici, d’Annunzio era un profondo conoscitore di essa. Nella biblioteca personale del Nostro al Vittoriale, vi sono molte edizioni di questa. «La Comedia» ha un linguaggio simbolico, dove la metafora rappresenta il viaggio interiore dello spirito umano. L’arte è dunque catarsi, cambiamento, liberazione. La poesia diventa allora la chiave con cui tradurre l’arcano nascosto nell’esistenza umana, nella natura, essa avrà una funzione importantissima nel d’Annunzio esoterico. La ricerca, lo studio dell’arcano si intensificarono negli ultimi anni della sua vita, furono anni per lui contemplativi, caratterizzati da un costante discorso dialogico con il suo spirito meditativo.
Gabriele d’Annunzio sosteneva di sentire una forza irrefrenabile che lo spingeva a scrivere poesia, le parole umane si silenziavano dentro sé per far nascere parole dettate dallo spirito contemplativo.
Si racconta che il Poeta scrivesse come in uno stato di trance, completamente assente e, solo ad opera finita, valutasse, ciò che aveva scritto. Per il Vate la poesia nasce quando il vero spirito universale si manifesta. «Non est mortale quod opto».