Quel “toc” per non dimenticare la tragedia del Vajont

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Sessant’anni fa, la sera del 9 ottobre 1963, una frana staccata dal Monte Toc precipitando nel bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont causò una devastante inondazione. Furono coinvolti prima Erto e Casso, paesi vicini alla riva del lago, e poi un muro d’acqua raggiunse gli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone. L’inondazione provocò la morte di 1.910 persone, di cui 487 erano bambini e ragazzi. Nel sessantesimo anniversario di questa tragedia, CulturaIdentità ricorda le vittime del disastro.

Quando piove, lì piove sul serio e la gente di Erto e di Casso lo sa. Perché hanno le mucche da spostare, il fieno da non far marcire, e quindi via con gli stivaloni a salvare quello che si può salvare quando il cielo decide che è ora di cacciare via il sole. E anche gli ingegneri, i geologi, il variegato team che ha costruito il nuovo prodigio della tecnica, la diga del Vajont, un po’ lo intuisce, perché a volte il tavolino, la scrivania, la punta della matita balla impercettibilmente, mentre un pezzo, un “toc”, magari minimo, si stacca dal monte, che porta appunto quel nome strano: Toc. Ma quella pioggia, per capirla, devi entrarci dentro con gli stivaloni e vedere che in dieci minuti è capace di trasformare un prato pieno di ranuncoli in un lago. Niente, per carità, in confronto al pozzo lungo e verdastro che hanno fatto saltare fuori gli ingegneri da un torrente, la lingua di lago che lambisce Longarone, il paesotto delle cose che contano: la banca, gli uffici, qualche negozio. Però l’agricoltore di Erto lo sa che il mondo sembra diventare una spugna, quando il giorno diventa una notte di pioggia e più di una volta ti capita che la gomma degli stivaloni ti faccia uno scherzo e tu cadi come un bambino in mezzo alle pozzanghere. Lo sa che non esistono stivali, non esiste gomma, plastica, ombrello. Cadi. Ti bagni.

L’ingegnere campione nell’inventare dighe lo sapeva anche lui. La pioggia la vedeva, a volte se l’era anche presa sulla nuca. Ma un attimo. E dietro il vetro della finestra sembra comunque che è solo un grande scorrere di gocce sulla superficie della terra. Così vedi l’universo, da dentro casa tua: è piccolo, è fuori. Non lo vedi che l’acqua, sì, scivola, in parte, evapora e torna nel circolo buono dell’atmosfera, ma una parte almeno è entrata dentro la terra e da lì non si muove, e la mangiucchia, la spiana, la arrotonda, la scava, la cambia. Fino a che anche solo un “toc”, un pezzo, è da buttare via e la natura, quella che spreme fuori la vita, non sa che farsene, lo lascia cadere.

O forse quella montagna che da anni si sta aprendo in crepe sempre più loquaci è in realtà un gigante che di notte balla dentro la pioggia e mette un piede dove c’è troppo bagnato e scivola, come una qualunque donna di Erto che torna dal pollaio alla cucina.

Lo spettacolo, per i tecnici appollaiati sulla loro diga (poi tutti morti, ovviamente), dev’essere stato come capire quello che c’era prima di ogni inizio. La Bibbia – Genesi – ha un termine ebraico intraducibile per chiamare il nulla: tohu wa-bohu”. Le h sono aspirazioni intorno al rimestare di suoni lugubri di u e di o. Il nulla è un lugubre disordine. È un vorticare privo di luce. Sono masse di buio che scavalcano altre masse di buio e il canto del Creatore le placa, le doma, le usa per creare. L’inizio di ogni inizio è una grande pace, che il cristiano ritrova nella sera di Pasqua, in quel “Dio disse…” che è il saluto del Risorto ai discepoli atterriti: “Pace a voi”.

Oppure il Vajont è solo una ripugnante tragedia. L’“invidia degli dèi” che ben conoscevano Eschilo, Sofocle. Gli uomini si fanno troppo orgogliosi della propria tecnica ed ecco che Zeus manda su di loro il castigo. Certo è che un tribunale cosa può dire di questa vicenda, che fa solo piangere? Un bambino nato da ventun giorni – che significa la gravidanza, con la fatica, i palpiti, la speranza dolorosa di chi ancora non sa, lo strazio del parto della madre – mangiato dall’acqua. Come un “toc”, un pezzo di umanità che non serve più a niente.

Non sono cose da poterne parlare.

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